Tre anni dopo “Resistance is Futile” (nel mentre James Dean Bradfield aveva messo sul piatto il proprio “Even in Exile“) ecco di nuovo i Manics, ormai veterani del rock d’autore britannico.

Si leggeva in giro di un album che sarebbe dovuto essere influenzato dagli andamenti armonici degli ABBA come dal post-punk anni ’80, ma a dire il vero il prodotto che ci troviamo di fronte è quello di un rock melodico e spesso scolastico, arricchito da una scrittura mai banale, profonda ed intellettuale, marchio di fabbrica dei nostri, il tutto con una resa sonica piuttosto luminosa e la consueta capacità  di caricare della giusta epicità  i ritornelli: quindi, “promesse” attese solo in parte (qualche influsso c’è, prendasi la frizzante “Don’t Let The Night Divide Us”, o le plumbee atmosfere di “Diapause”), ma non è certo un male.

Questo è un album Manics nell’essenza se non direttamente nella forma: certo, con meno rabbia tipica degli esordi, meno energia, molto più scolastico, tra svariati rintocchi di piano ed arie limpide, per un prodotto in fin dei conti dalla beva assai agevole.

Se in “Still Snowing in Sapporo” si rende ancora omaggio all’amico scomparso Richey Edwards (<noi quattro contro il mondo>, canta James) probabilmente i passaggi di maggiore impatto sono però quelli in cui figurano Julia Cumming dei Sunflower Bean (“The Secret He Had Missed”) e soprattutto Mark Lanegan a sporcare le pagine di “Blank Diary Entry”, laddove un plauso lo strappa anche l’accorata chiusura affidata ad “Afterending”.

Un lavoro che non passerà  certo alla storia, ma che al contempo non toglie niente al valore artistico e simbolico della band gallese.