Vi ricordate la controversa copertina di “I Get Wet”? Esattamente vent’anni fa, Andrew W.K. si presentava al mondo col volto tumefatto e il naso grondante sangue. Un’immagine di grande impatto ““ violenta se non addirittura scioccante, visto che alcuni ci videro un implicito elogio al consumo di cocaina ““ destinata a diventare il simbolo di un cantante che, in costante bilico tra la farsa e il mistero, ha attraversato gli ultimi due decenni in maniera silenziosa e alquanto anonima, disattendendo le promesse dell’esordio targato 2001.

Nessuna festa eterna per l’esaltatissimo polistrumentista statunitense: l’eco del suo hard rock chiassoso, esagerato ma estremamente melodico si è spenta lentamente, nell’indifferenza del pubblico e della critica. Le recensioni quasi sempre negative, le vendite tutt’altro che entusiasmanti, gli esperimenti inconcludenti (lo strumentale “55 Cadillac”) o bizzarri (una collaborazione con i Current 93), la conduzione di un reality show su Cartoon Network e, tanto per non farsi mancare nulla, la scoperta della new age e dell’opinabile arte dei discorsi motivazionali: negli anni successivi al botto di “I Get Wet” il rapporto tra Andrew W.K. e la musica è stato a fasi alterne scomodo, disinteressato o del tutto assente (vedi il lunghissimo silenzio discografico tra il 2009 e il 2018).

La fiamma dell’ispirazione però sembra essersi riaccesa da qualche tempo a questa parte; “God Is Partying” è finalmente tra noi, pronto a cancellare via la delusione per il precedente “You’re Not Alone” e ad aprire una nuova fase nella carriera del campione del party selvaggio. L’album di debutto per la prestigiosissima Napalm Records segna un vistoso passo in avanti nella carriera di Andrew W.K., quasi irriconoscibile nelle vesti di artista maturo, poliedrico e persino virtuoso – considerando i notevoli miglioramenti nelle performance vocali.

La voglia matta di fare festa c’è ancora, ma non è più il solo e unico elemento alla base di una formula hard rock che, nonostante l’assenza di guizzi creativi, è diventata veramente molto ricca. Anche troppo, se proprio vogliamo esser sinceri: il profluvio di sintetizzatori che immerge in atmosfere kitsch, sinfoniche e barocche tanti brani della lista (“No One To Know”, “I Made It”, “And Then We Blew Apart” e “Stay True To Your Heart”) alla lunga può risultare più stucchevole che divertente.

Sorprende invece la qualità  di canzoni come “Everybody Sins”, “My Tower” e “Remember Your Oath”, in cui Andrew W.K. riesce a dare una lettura moderna e coinvolgente delle scintillanti e ultra-melodiche sonorità  AOR/hard rock degli anni ’80 senza mai scadere nel cattivo gusto o rinunciare a quelle trame elettroniche che, nel bene o nel male, attraversano tutti i cinquantadue minuti di “God Is Partying”.

Le troviamo anche nelle due canzoni più pesanti, aggressive e metalliche del disco, ovvero la stranamente museiana “Babalon” e la cattivissima “I’m In Heaven”, entrambe sorrette da riffoni da manuale. Si poteva fare di meglio? Indubbiamente sì. L’impressione generale è che Andrew W.K., dopo anni di inattività  o lavori di basso profilo, sia ancora nel pieno di un processo di riscoperta della propria musica. Un percorso che lo sta inesorabilmente allontanando dal mood esagerato, festaiolo e caciarone degli esordi. La fase di transizione è in atto.