Non è mai stato semplice per nessun artista dare seguito a un proprio bestseller, se non proprio a livello di numeri almeno da un punto di vista di qualità  del prodotto.

Le aspettative crescenti, i fari puntati addosso, la voglia di andare oltre e non replicarsi, o al contrario la smania di battere il ferro finchè caldo, hanno spinto molti nomi a deludere i propri fans e la critica una volta chiamati al passo decisivo.

Pure i Live, americani della Pennsylvania, si sono trovati di fronte a un bivio, dopo i fasti del tanto celebrato (e riuscito) “Throwing Copper”, pubblicato nel 1994 e che ha avuto una coda lunga per tutto l’anno successivo, risultando essere il quinto album più venduto in assoluto negli States nella classifica di Billboard.

Sul finire dei nineties si contavano in ben sei milioni di esemplari le copie vendute al di là  dell’Oceano, cui ne andavano sommate altre disseminate in varie parti del globo, su tutte l’Australia, mentre in Europa la loro proposta, frettolosamente etichettata dai più come post-grunge aveva lasciato un po’ freddini, con la lacuna di non essere riusciti (almeno fino a quel momento) a intaccare i cuori degli inglesi.

Un album a mio avviso, davvero notevole,“Throwing Copper”, per la varietà  del sound, le melodie irresistibili, il canto passionale di Ed Kowalczyk e una manciata di singoli memorabili (su tutti impossibile non citare “Selling the Drama”, “I Alone” e l’intensa ballad “Lightning Crashes”): con tali presupposti sarebbe stato difficile in effetti per il suo sostituto rendere altrettanto bene ed essere in possesso del medesimo valore.

L’attesa da parte mia si era fatta sentire, i Live avevano fatto breccia, complice anche uno splendido spettacolo televisivo unplugged (allora tanto in voga su Mtv), ma essendo già  piuttosto avvezzo a certi meccanismi, magari inconsci, ipotizzavo che probabilmente sarei andato incontro a qualcosa di diverso mettendomi all’ascolto del disco nuovo, previsto a quasi tre anni di distanza da un tale successo.

“Secret Samadhi” venne pubblicato il 18 febbraio del 1997, quindi esattamente venticinque anni fa, mostrando subito un gruppo cambiato, teso a inseguire una propria strada, differente da quella intrapresa dal disco d’esordio e poi continuata felicemente appunto con “Throwing Copper”: le atmosfere presenti nelle nuove canzoni erano indubbiamente più cupe ““ come suggeriva d’altronde anche la suggestiva copertina -, i suoni ben più saturi e aspri, le liriche amaramente consapevoli, senza quell’aura di riscatto più volta espressa negli altri lavori.

Certo, la componente spirituale ““ fortemente evocata nei lavori precedenti ““ non era stata abdicata in toto, ma pareva sommessa, schiacciata quasi da un senso di rivalsa pregnante, di chiamata alle armi che sapeva di giungere presto a una resa.

Tali presupposti però non venivano messi in secondo piano, e anzi, questi messaggi erano veicolati ora da una musica di grande impatto, molto più dura che in passato, oserei dire senza compromessi e senza strizzare l’occhio al mainstream, nel quale i Nostri si trovavano in realtà  a sguazzare.

Tutto possiamo dire di questo disco ““ per alcuni poco a fuoco, dispersivo, scarsamente melodico, senza singoli forti ““ ma non che sia nato con intenti “commerciali”, men che meno che fosse facile e “furbo”: i Live si sentivano pronti per osare qualcosa di più, per tradurre i propri demoni e le proprie incertezze, per gridare il loro disappunto e sventolare una autenticità , più volte da certa critica messa in discussione.

Tutte le liriche sono al solito appannaggio del carismatico frontman di origini polacche Ed Kowalczyk, mentre le musiche vedono la firma del quartetto al completo, completato dal talentuoso chitarrista Chad Taylor, e dalla poderosa sezione ritmica formata dal bassista Patrick Dahlheimer e dal batterista Chad Gracey, e in mezzo a una totale coesione di intenti una menzione d’onore la merita il produttore Jay Healy, il quale seppe indirizzare il progetto verso determinati sentieri sonori, assecondando gli istinti e le volontà  della band.

Il brano apripista “Rattlesnake” è emblematico, ad esempio, del cambio di guardia in cabina di regia, visto che per primo mostra uno schema compositivo che mette in risalto l’alternanza di piano e forte, di silenzi e rumori assordanti, intessuti in una performance intensa e audace, convincente sotto ogni punto di vista: insomma, fu un ottimo biglietto da visita che, certo, prendeva molto le distanze dalle melodie a presa rapida del disco precedente, ma lo faceva in virtù di una qualità  indiscutibile.

La seconda traccia era già  nota, in quanto “Lakini’s Juice” ebbe il compito di anticipare l’opera come singolo. Qui le atmosfere, se vogliamo, virano ancora più sul drammatico, con un sound che diventa apocalittico e un video che richiama, quello sì, certe atmosfere del morente movimento grunge. Il punto debole di questo singolo sembra quello di non avere una direzione precisa, soprattutto si avverte la mancanza di un ritornello incisivo, ma è uno di quegli episodi che riescono a entrarti sotto pelle e colpirti ai fianchi, scuotendo con l’imponenza della sua struttura di duro rock nel suo insieme.

Dopo due canzoni dal gran piglio ma allo stesso tempo fortemente destabilizzanti, i Live con le successive “Graze” e “Century” fanno rientrare l’ascoltatore nella loro confort zone: la prima in particolare è carica di quel pathos che li aveva resa celebri, con una linea vocale appassionata e greve al punto giusto e un apparato musicale calibrato che sa accendersi di colpo, imprimendo grande significato a parole intrise di spessore; “Century” invece si poggia su semplici ma efficaci riff di matrice punk che esplodono nel ritornello dopo una prima parte più soft, una formula vista con successo in alcuni brani passati del loro repertorio.

“Ghost” è la prima vera ballata del disco, così speculare alla splendida “Lightning Crashes” da sembrarne più che un degno contraltare (la narrazione tratta la medesima vicenda) una copia appena appena sbiadita: pur se ben fatta, non saprà  lasciare un segno nel cuore dei fans.

Lungo la scaletta si susseguono brani dal buon impatto e altri di minor entità , comunque legati a livello di atmosfera, garantendo quindi quel mood introspettivo dai toni dark: rappresentano un’ eccezione al riguardo “Turn My Head” e “Merica”.

La prima è una canzone lenta e avvolgente, che nel tempo assurgerà  a uno dei migliori singoli partoriti dal gruppo, lasciando quindi qualche rimpianto su una direzione più morbida che si poteva intraprendere in parte anche qui; la seconda con i suoi accenti pop-rock si staglia dal resto forte di una buona vena melodica.

Per il resto vorrei citare l’altro singolo “Freaks”, minaccioso e beffardo nei suoi cambi di registro, la sanguigna “Insomnia and the Hole in the Universe”, fatta di affascinanti chiaro-scuri e una “Gas Hed Goes West” che chiude il lavoro con accorati versi, forse arrivati troppo tardi.

“Secret Samadhi” non è un album facile, comporta una certa attenzione e la volontà  di estraniarsi dal contesto per farsi assorbire appieno dal mondo interiore dei Nostri, ma a distanza di venticinque anni non me la sentirei di definirlo un passo falso del gruppo.

Nella percezione generale, oltre che conti alla mano in fatto di vendite, è stato un flop (pur arrivando al primo posto nelle charts USA) ma è poi cresciuto nettamente con gli ascolti nel tempo, non perdendo oltretutto un grammo della sua intensità .

Col senno di poi, si può affermare abbia rappresentato da parte di Kowalczyk e compagni il tentativo di andare oltre quanto prodotto con successo in precedenza, rischiando sulla propria pelle nel proporre della musica a tratti opprimente e senza via di uscita, con pochi lampi di luce a squarciare il cielo.

Da lì in poi torneranno su lidi più rassicuranti ma, occorre dirlo, anche con meno ispirazione rispetto a quanta ne fu profusa in queste dodici tracce. Rimane pertanto, questo terzo disco dei Live, un episodio unico nel loro repertorio, magari incostante ma al contempo intriso di fascino oscuro.

Live ““ Secret Samadhi
Data di pubblicazione: 18 febbraio 1997
Tracce: 12
Lunghezza:  53:18
Etichetta: Radioactive Records
Produttore: Jay Healy, Live

Tracklist
1. Rattlesnake
2. Lakini’s Juice
3. Graze
4. Century
5. Ghost
6. Unsheathed
7. Insomnia and the Hole in the Universe
8. Turn My Head
9. Heropsychodreamer
10. Freaks
11. Merica
12. Gas Hed Goes West