Dopo dodici anni dall’ultima volta e almeno un paio di posticipi causa pandemia, ritornano finalmente in Italia i Sisters of mercy, progetto luminare del gothic rock o dark che dir si voglia.

Insieme, tra gli altri, ai vari Cure, Bauhaus, Siouxsie and The banshees, Joy Division, sebbene arrivati qualche anno dopo esattamente nel 1983 con l’ep “Alice” e nel 1985 con il loro capolavoro “First and last and always”, sono stati gli alfieri, di un movimento che affiancando e mischiandosi con la new wave o il post punk, più che un genere musicale, è diventato uno stile di vita, una filosofia maestra.

Andando poi ad influenzare pesantemente tutto il revival anni zero dei vari Interpol, Editors e così via.

Sono passati ormai otto lustri da quel periodo d’oro, è rimasta sostanzialmente della grande musica da consigliare e tramandare alle generazioni più giovani.

Della formazione originale è presente solo Andrew Eldrich inconfondibile voce baritonale e anima pensante quanto poetica del progetto, che con l’abbandono di Wayne Hussey e Craig Adams convogliati nei successivi Mission (anche loro da queste parti, ma nel 2023), già  ai tempi diventò il titolare unico della matrice Sisters of mercy.

Discograficamente parlando non sono stati sicuramente così prolifici, si contano solo tre album ufficiali e svariate pubblicazioni di singoli licenziate poi nella classica raccolta a fare ordine.

Da allora più nulla, solo tour celebrativi del materiale che fu, proprio a volerne sottolineare l’importanza.

In realtà , arrivando ai giorni nostri e allo stesso giro di concerti organizzato proprio per l’anno 2020, la setlist è stata farcita di diversi inediti udibili sotto forma di filmati amatoriali sul tubo. Materiale interessante che non si discosta molto dal classico marchio di fabbrica. Comunque a testimoniare anche una certa verve compositiva e ritrovata voglia di misurarsi con la scrittura, chissà  forse saranno canzoni per un nuovo disco.

Per i nostalgici sono brani che inevitabilmente rubano posto agli evergreen del passato, per i più curiosi, un motivo di novità  di una band cosi importante.

Si inizia con “Don’t drive on ice”, appunto un brano inedito quanto riassunto perfetto del suono Sisters of mercy, drum machine asfissiante e ritornello ipnotico, un’altra unreleased track suonata stasera è “But Genevieve” (la si trova su YouTube in una versione bootleg studio più che buona) tranquillamente una delle loro cose migliori dopo il sopracitato masterpiece d’esordio, chitarre ossessive a ripetizione, con il riff preso in prestito da “Siamese Twins” dei Cure dall’imprescindibile “Pornography”, drumming dritto in faccia e la voce di Andrew rarefatta.

A proposito di classici, tanto per citare qualche titolo, in scaletta non possono mancare le sorellastre “Alice” , “Marian” e “Lucretia My reflection”, quest’ultima nel primo dei due bis.

C’è spazio ancora per una nuova “I was wrong” più acustica e solare, o per la stessa “More” tratta da “Vision Thing” il loro terzo album.

Chiudono il concerto l’immancabile hit “Temple of love” e la danzante “This Corrosion”.

Pubblico, tranne qualche eccezione, inevitabilmente un po’ age’, siamo tranquillamente nel “non è un paese per giovani”, sebbene siano, senza dubbio, i padri putativi di tante band, come detto sopra, uscite negli ultimi anni.

Per riassumere, diciamo che non sapevo cosa aspettarmi sinceramente da un live del genere, non avevo nemmeno sensazioni così positive, in realtà  rimango a metà  strada, avrei preferito qualche classico in più e non tutto è filato per il verso giusto dal punto di vista sonoro e poi la durata di un’ora e’ un po’ il minimo sindacale per una band cosi importante, il rovescio della medaglia è che stiamo parlando di una proposta comunque in salute per quanto riguarda il ritrovato entusiasmo, nuovi musicisti, che non erano nemmeno nati quando i Sisters esordivano e qui potremmo storcere il naso, ma le reunion hanno spesso questo tasto dolente, però andando oltre, sono gli stessi che portano linfa, rinnovamento e il sopracitato entusiasmo, per un versione 2.0 piaccia o meno, a certificarne il tutto la ritrovata voglia appunto di proporre nuove canzoni, (dopo anni) seguendo il proprio istinto anche perchè i primi a doversi divertire sono proprio loro stessi.

Nel complesso una pagina della storia del rock da studiare e approfondire senza pensarci un attimo.

N.B. Consueta nota a margine per citare la band di apertura, Hugs of The Sky, interessante collettivo belga, dalle parti di una certa neo – psichedelia suonata da paura, hanno scaldato l’atmosfera per una trentina di minuti raccogliendo applausi sinceri.