Una “It’s Me and You, Kid” cantata in coro e come fosse un inno ha concluso la prima esibizione romana nella storia dei King Hannah. Concerto annunciato a sorpresa dopo che avevamo visto da lontano gli annunci ad aprile delle solite tappe al nord. Un ritorno in Europa ad inizio giugno dopo il tour nordamericano. Per avere incluso la capitale nei loro lunghi giri, li ho potuti ringraziare personalmente prima del concerto, apprezzando la realtà  di due ragazzi che sono esattamente quelli di cui nelle loro canzoni cantano. Hannah  Merrick  Craig  Whittle, in persona, sono proprio quelli: “Siamo io e te, ragazzo / Ma io sono tutto quello / che mai sarò“. C’è una fetta, sicuramente più larga di quello che sembra, di questa generazione che non posa, che non cerca di apparire quel che non è, che non finge sui social e altrove una “perfezione” che non esiste e loro la rappresentano perfettamente. Ci vuole coraggio a essere se stessi come artisti. Certo, aiuta se sei un grande musicista. E loro lo sono.

Questa la conferma venutaci dal live.  Hannah  è una cantante pazzesca: modula la voce alla perfezione, tra alti e bassi, rimanendo composta, senza spalancarla, anzi senza quasi aprirla a volte. Ma con quella voce dirige tutta la band e dà  i tempi, con un senso vocale del ritmo davvero raro.  Craig  è un grande chitarrista. Grazie a lui, la chitarra elettrica rischia di tornare a essere cool, ammesso che abbia mai smesso. Come ogni grande chitarrista, egli suona innanzitutto il blues, ma poi lo cala nel suo tempo, nel nostro tempo, in cui i tecnicismi ci hanno stufato, in cui ciò che cerchiamo è l’atmosfera, il viaggio introspettivo.

King Hannah  dal vivo è una conferma, dicevamo. Volevamo capire avendoli davanti se questa musica che, da almeno un anno, sta stregando molti di noi, fosse o meno reale, oppure un fenomeno che alla prova live rivela i suoi limiti. “It’s been a crazy year”: mi ha detto  Hannah  prima del concerto. Basta dare una occhiata al loro Instagram e vederli girare come trottole l’Europa, poi il Nordamerica, e ora di nuovo qui. Perlopiù sul retro di un pulmino, con un budget limitato. Ci saranno state massimo 200 persone a Largo l’altra sera; con biglietti al prezzo ridicolo di 12 euro, si capisce che meno male che c’è il banchetto del merchandising, che sennò questi tour, negli anni ‘2o post-pandemici non potrebbero esistere. E meno male che la gente si è messa in fila al banchetto e, alcuni fortunati, sono pure riusciti a farsi firmare i vinili dalla band.

Da tutto questo, noi che c’eravamo, siamo usciti stregati più che mai. King Hannah, ora lo sappiamo con certezza, sono qui per rimanerci. Ossia, non so quanti dischi ancora faranno, ma quelli fatti finora rimarranno. E’ musica rilevante, fatta da ragazzi con i controcosi. Che sanno cosa è la musica e che hanno delle idee e una formula originale, seppur ben piantata nel passato: anni ’70 e ’90 soprattutto. Ragazzi come questi, Roma avrebbe potuto trattarli meglio, diciamo. Ma Roma è fatta così con gli stranieri, si sa. A parte l’incertezza sull’orario d’inizio della musica che, prima dell’inizio, aveva tre diverse interpretazioni autentiche, a seconda se guardavi il biglietto, il sito web di Largo, o chiedevi ai gentilissimi addetti. Per poi cominciare ancora più tardi dell’annuncio più pessimista, naturalmente. Ma questo a Roma te lo aspetti, è parte dell’esperienza, come le macchine in doppia fila. Quello che non ci aspettavamo, e di questo è responsabile chi ha ospitato il concerto, è il pessimo lavoro fatto in sede di ingegneria sonora. All’inizio del concerto, i tom-tom e il basso che lanciano “A Well Made Woman” ci entravano sotto il costato, provocando un dolore che faceva venire voglia di andarsene e scappare. Dopo esserci abituati a ciò, un orribile riverbero del basso ha cominciato a scassare le orecchie nostre, che ci guardavamo trasalendo, ma anche quelle della band. E c’è voluto il richiamo dal palco perchè qualcuno facesse qualcosa e riportasse la situazione a essere gestibile da orecchio umano. Avevo avuto, nello stesso luogo, qualche settimana fa in un altro concerto, un’altra esperienza poco positiva. Insomma, non è possibile che a Roma, solo se ti puoi permettere l’Auditorium ti puoi permettere di rispettare le orecchie dei tuoi fan. La musica non è rumore e, soprattutto, l’ingegneria del suono non è roba che s’improvvisa.

A parte questo, a parte questa mancanza di rispetto, tutta romana, verso chi è sceso da Liverpool per portarci una tale meraviglia musicale. Verso due ragazzi tremendamente cool. Verso una cantante che più carismatica di così impossibile, per come canta, per cosa canta, per come non si atteggia. A parte ciò, ho visto Roma fare cose peggiori agli stranieri. E l’altra sera ho visto parecchie decine di ragazzi romani fare cori, battere le mani, urlare complimenti verso un palco che rispondeva con quel sorriso imbarazzato e grato di  Hannah che sarà  difficile scordare. E per potere tornare a immaginarlo, in tutta la sua sincerità , nel caso improbabile in cui leggerete questo, fatecelo dire di nuovo: “Thank you guys! Come back soon“.