Per un motivo o per l’altro non ero mai riuscito a vedere Patti Smith dal vivo, sebbene sia una sorta di Bob Dylan al femminile, condividendo con lo stimato collega una vita nomade da “neverending tour”, che l’ha portata spesso e volentieri da noi in differenti versioni, reading e acustici compresi.

Stasera è la volta buona a conclusione dell’ennesimo giro italiano, siamo nella splendida cornice del cortile interno del Castello Sforzesco e nella capitale lombarda, per la data conclusiva, aggiunta per altro quasi all’ultimo minuto o comunque ad appuntamenti ampiamente comunicati: va in scena la versione rock / blues / wave, il cosiddetto quartet, che vede la presenza di Tony Shanadan al basso e tastiere, Seb Rochford dietro le pelli, ma soprattutto del figlio Jackson alla chitarra.

Che dire, mi pare ovvio di essere di fronte ad una delle icone del rock ancora in circolazione, quelle che il rock o pop appunto lo hanno anche un po’ inventato con decenni di carriera alle spalle, Patti Smith è assolutamente una di queste con pieno merito, nulla da aggiungere.

Sono quei personaggi che profumano di assoluto, per cui non ha nemmeno tanto senso esporre una critica o un’analisi che dir si voglia. Il concerto è assolutamente in linea con ciò che potessi aspettarmi e nonostante le quasi settantasei candeline ho trovato la sacerdotessa in grande forma, ancora enormemente sul pezzo con il desiderio di esserci sempre e più che mai.

L’allestimento è da grande palco con un parterre da seduti, sebbene, almeno per le ultime quattro / cinque canzoni c’è stato l’invito caloroso a suon di “move your ass” a raggiungere il palco per la festa di chiusura con i super classici da “Because the night”, passando per la consueta e lunghissima cover “Gloria”, per poi chiudere con il pezzo simbolo di tutta una carriera che chiunque anche distrattamente ha intercettato almeno una volta nella vita, che, altresì, chiude, credo da sempre, i concerti di Patti, l’abituale “People Have The Power”, suonata per altro insieme ad un timidissimo Gigi Datome, ala piccola dell’Olimpia Milano, che dal nulla ha imbracciato la chitarra acustica unendosi alla band, insolita e quantomeno curiosa come cosa.

Il concerto è stato ovviamente bello, ma non avevo alcun dubbio, diciamo che non ne ho apprezzato tutte le componenti, mi riferisco a qualche lungaggine di troppo, gli stessi due reading, che sono il suo dna da tempo a questa parte, quindi massimo rispetto, però smorzano forse un pò troppo l’atmosfera, per l’esattezza la lettura di “Footnote to howl” di Allen Ginsberg e “L’Infinito” di Leopardi, introduzioni piuttosto dilatate dei brani, pure una premiazione con la consegna di una pergamena con tanto di assessore on stage.

Diciamo che avrei preferito sentire, piuttosto, tre o quattro brani in più, perchè quando tutto fila liscio con lei alla voce, dico così perchè c’è stata, per la cronaca, la cover di “Fire” di Jimi Hendrix con la padrona di casa a riposo per qualche minuto, c’è poco da fare, siamo pur sempre in un altro campionato.

Oltre ai pezzi già  elencati, la setlist è più o meno la solita degli ultimi anni, quindi non manca quasi mai “Pissing in the river” come “Dancing Barefoot” o “My Blanket Year”, o la stessa cover di “After Gold Rush”, alla fine quasi due ore di show con tutte le succitate caratteristiche, che non hanno comunque minimamente scalfito quasi due ore di grande musica.

Photo Credit: Bene Riobó, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons