Amanda Shires è sempre stata una ribelle nel mondo del country, non necessariamente rivoluzionaria nello stile ma decisa a non lasciarsi ingabbiare dalle regole di un mondo fortemente legato a tradizioni difficili da combattere. La situazione è migliorata negli ultimi anni anche grazie all’impegno di donne come lei, capaci di creare la propria strada a suon di canzoni scritte come solista, con il supergruppo The Highwomen o in sodalizio col marito Jason Isbell che suona la chitarra in ben sei brani del nuovo album prodotto da Lawrence Rothman (Angel Olsen, Girl in Red, Courtney Love).

E’ un disco atipico “Take It Like A Man”. Duro e autobiografico, fa i conti con le mille insidie della vita e dell’America senza sconti nè giustificazioni. Rapporti difficili, insoddisfazione, sofferenza, una rabbia concreta sporca a volte il lato melodico della musica di Amanda Shires che alla soglia fatidica dei quaranta anni si scopre falco e non colomba. Emblematica la quasi totale assenza dello strumento preferito, quel violino lungamente accarezzato che qui viene lasciato da parte per far spazio a suoni più corposi, da vera band (ad affiancarla ci sono anche Jimbo Hart al basso, Peter Levin alle tastiere, Maren Morris ai backing vocals in “Empty Cups”).

Il cuore in mano, la voce che si spezza nella title track, una sicurezza di sè nata dall’esperienza e dalle mille difficoltà  affrontate e superate versando qualche lacrima ma senza drammi, con un’intensità  che rende preziosi brani come “Don’t Be Alarmed” o “Fault Lines”. Dieci pezzi in cui dominano le tastiere, più vicini all’indie rock che in passato con l’eccezione di “Everything Has Its Time” (scritta insieme a Natalie Hemby) che con i suoi toni orchestrali sa di riconciliazione e serenità  raggiunta. Settimo album e quasi un secondo debutto, questa la definizione più gettonata per “Take It Like A Man” e la svolta è evidente, se momentanea o definitiva sarà  il tempo a dirlo.