Si chiama Tropical Gothclub il progetto solista di Dean Fertita, polistrumentista statunitense attivo su molteplici fronti ma noto al grande pubblico come tastierista/chitarrista dei Queens Of The Stone Age e dei Dead Weather. Il suo album di debutto, nato nel pieno della pandemia e registrato in compagnia dell’amico Dave Feeny, non si allontana troppo dalle sonorità esplorate al fianco di Josh Homme e Jack White.
Il legame con Detroit, città di origine di Fertita, è indiscutibilmente molto forte. La base di partenza del disco è infatti il garage rock – ovvero il genere che, tra gli anni ’60 e ’70, si sviluppò proprio nella capitale dell’industria automobilistica americana grazie a band come MC5 e The Stooges (gruppo che Fertita conosce sicuramente più che bene, avendo collaborato con Iggy Pop ai tempi di “Post Pop Depression”).
Il suono acido e distorto delle chitarre elettriche, incontrastate protagoniste dell’opera, si sposa alla perfezione con l’organo, il clavinet e gli svariati sintetizzatori vintage da sempre impiegati dall’uomo che si cela dietro il moniker Tropical Gothclub. L’album sprizza energia e sudore da tutti i pori, forte di una quantità industriale di riff ficcanti ritagliati sui modelli del miglior hard rock d’antan.
Sembra divertirsi un mondo il poliedrico Dean Fertita, autore di un’opera coloratissima che stordisce – in maniera piacevole, intendiamoci – con atmosfere psichedeliche, ritmi incalzanti, citazioni funk, richiami blues e melodie dal gusto aspro, malato ma a loro modo raffinate, come ci dimostrano le più che convincenti parentesi pop dell’album (“Infernal Inside”, “Where The Water Is”, “Double Blind” e “Uniform Looks”).
Alcune tracce del lavoro sono così elettrizzanti da farci sperare in un futuro roseo per il progetto Tropical Gothclub: penso a “Needles”, “Wheels Within Wheels”, “Captivated” e “Future To Follow”. Tuttavia, l’impressione generale è che Fertita, dal punto di vista creativo, non sia ancora riuscito a emanciparsi dalle ingombranti figure di Jack White e Josh Homme, i due chiari riferimenti nella scrittura e nella scelta dei suoni del disco.
Di idee realmente originali ce ne sono poche; le somiglianze coi Queens Of The Stone Age sono così palesi da rasentare il plagio nel caso di “No Wonder”, un bel pezzo ballabile che mi ha fatto subito pensare a “Smooth Sailing” e “Feet Don’t Fail Me”. Con questa piccola critica non voglio di certo sminuire il talento di Dean Fertita che, praticamente da solo, ha scritto e registrato un album molto potente e pressoché privo di sbavature. Diciamo solo che deve ancora trovare la sua via.