Probabilmente è solo una questione di abitudine, nella miriade di ascolti e di uscite discografiche, quell’abitudine un po’ referenziale ma banalmente involontaria di specchiarsi nel mix di sensazioni di ciò che si ascolta, per cui insomma è come con gli amici, li trovi prioritariamente in base al fatto che collimino con le tue caratteristiche, non è che si tratti di apertura mentale o predisposizione perché poi alla fine si molla ciò che non interessa, a patto di possedere una personalità: è che il concetto di euforia che sgorga da ogni singola nota di questo “Heavy Heavy” è talmente diretto e spontaneo che destabilizza, ponendoci di fronte all’irreparabile scelta di assecondarlo sapendo che ha a che fare con qualcosa di originariamente presente nell’alveo delle nostre scelte, non riuscendo più a coglierlo per quello che è, e ci mancherebbe altro che non fosse così.

Credit: Julia Noni

C’è poco da festeggiare e esiste anche una certa autorevole ragione per cui questi tempi pre catastrofici non sentano la necessità di essere accompagnati da questo tipo di suoni; probabilmente invece i 3 inglesi al loro difficile quarto album se ne fregano altamente di porsi in sintonia col mondo, mentre coscientemente fanno molto bene a mettersi in sintonia con sé stessi,  ponendosi alla prova come artisti che nella loro pur breve storia hanno già dimostrato di saper dialogare con gli istinti più scoperti di una contaminazione di generi che solo di impostazione si può far iniziare nel post dub step, dando vita ora ad una gioiosa opera  che vuole trasmettere emozioni positive, lo stupore, l’emancipazione, la propria riscoperta, la lotta contro il soffocamento espressivo, una specie di atto liberatorio autopersonale da infliggersi con felicità cantando ballando, uniti, in gruppo, alzando le mani al cielo.

C’è quindi qualcosa di vagamente divinatorio nelle canzoni di “Heavy Heavy”, titolo apparentemente semplice ma dall’ampia connotazione, che forse è solo un gioco di antitesi con la leggerezza del messaggio della musica contenuta, o forse è solo uno slang per scandire il ritmo, oppure sì, un mantra da ripetere per scacciare in modo simbolico la pesantezza di questi tempi pericolosi.

Fatto sta che questo album è una specie di treno da prendere al volo, che non lascia molti margini all’immaginazione e che si risolve abbastanza semplicemente in una serie di (brevi) canzoni dalla ritmica serrata e tribale, con cori da Africa centrale, stop and go da dancefloor animista, con le potenti voci del trio che dominano incontrastate, saturando i già alti livelli di suono proposti, come se dovessero spaccare qualche muro,  tanta è l’urgenza di questi inni declamatori a volte coinvolgenti, a volte più interessanti (“Shoot me down”),  a volte di una semplicità disarmante (“Geronimo”, “Ululation”).

Non siamo più abituati a sta roba, non è neanche una questione di groove o ritmo incalzante che ti porta a muoverti, che per quello è difficile non essere pronti e saremo pronti fino alla morte: qui è appunto l’idea di un movimento euforico che prevale,  sembra un po’ di stare dentro una festa a Pandora in “Avatar 2”, fra sirene e abitanti del metaverso, a danzare all’unisono per la bellezza dell’universo, e anche tutto questo non  sarebbe un male, visto che come le 3 ore del film di Cameron passano come una meraviglia, anche i 33 minuti scarsi di “Heavy Heavy” riescono a proiettarci senza freni in uno status di contemplazione di una gioia gridata e sincera, che non lascia indifferenti, almeno per la durata dell’album.

Poi chissà, magari torna la voglia di riascoltarlo, magari no.