Quando una band che ha avuto nel suo vissuto momenti molto alti si presenta con un nuovo album spesso si cade nella tentazione di fare i conti con il suo passato, e spesso c’è una specie di rifiuto e una prevenuta presa di posizione dell’ascoltatore nei confronti del loro lavoro ( per fare un esempio cito The Who e i Pixies, che ho avuto il piacere di recensire,  usciti con due buoni lavori).

Credit: Anton Corbijn

Capita perché gli attori sono invecchiati, le band cambiate, magari ci sono stati album particolarmente non riusciti che hanno allontano anche i fan storici che nel frattempo sono invecchiati anche loro, e magari fanno lo sforzo di andare a vedere live quello che è rimasto della band solo per ascoltare i loro vecchi successi.

Questo non è ancora capitato ai Depeche Mode ancora vivi e vegeti anche sul lato discografico, la loro importanza e contatto con uno stuolo di irriducibili fan, nonostante alcuni loro album dopo “Ultra” non abbiano ottenuto poi così tanti consensi, non è stato mai particolarmente intaccato.

Di certo ora Martin Gore doveva tornare a mostrarsi in forma con un album convincente, sicuramente questo “Momento Mori” diventa un momento importante per rinsaldare la loro posizione, dimostrare che anche discograficamente hanno ancora qualcosa da dire e rianimare i calorosi e numerosissimi fan che rischiavano di diventare tiepidi.

L’album è stato scritto da Martin Gore (aiutato da Richard Butler dei Psychedelic Furs, Dave Gahan per alcuni brani e altri collaboratori) durante la pandemia e, come è stato raccontato da lui stesso, quel periodo ha intensificato la propensione al tema della morte, anche il fatto di aver compiuto il pesante sessantesimo compleanno ha avuto il suo peso specifico nell’alimentare questo argomento.
Nulla a che vedere con la perdita di Andy Fletcher, piuttosto la sua morte improvvisa poteva avere un effetto distruttivo per gli equilibri e per la vita della band, in particolare per il suo ruolo di elemento di unione tra Martin e Dave, e anche perché un lutto a volte salva e a volte distrugge le relazioni.

“Memento Mori” nasce come un tentativo di ripercorrere il passato attraverso la ricerca di un suono e una melodia che potesse recuperare il periodo di splendore della band, da ritrovare con uno sguardo agli anni 80 e la collaborazione di elementi di primo piano che vedono la partecipazione alla produzione di James Ford, Marta Salogni al mixaggio, Davide Rossi per le partiture orchestrali.

Il primo singolo “Ghosts Again” aveva mostrato questa linea in un brano semplice sia nel cantato, anche se Dave Gahan ce la mette tutta, sia nella ricerca elettronica che sfiora a tratti il plagio di “King’s Cross” dei Pet Shop Boys, una semplicità che poi si è cercato di bilanciare con il secondo singolo “My Cosmos Is Mine” più oscuro e ricercato ma non particolarmente affascinante.

“Wagging Tongue” si muove sulla linea del primo singolo, con una sensazione di già sentito tanti anni fa, un po’ da loro un po’ da altri, che pervade il brano, meglio sicuramente l’andamento ipnotico di “My Favourite Stranger” che nella sua ripetitività colpisce maggiormente.

“Soul With Me” cantata da Martin Gore, che per un momento ho pensato fosse un momento di coraggio vocale di Dave Gahan, e “Caroline’s Monkey”, ( stile Heaven 17 ma non i migliori) sono i momenti più deboli dell’album, riscattati da “Always You” e da “Never Let Me Go” che maggiormente riesce a unire passato e presente e che poteva benissimo essere scelto come singolo, e anche dalla lenta “Speak To Me” che chiude bene l’album con un crescendo finale nel quale il lavoro di Marta Salogni diventa centrale nell’alimentare una chiusura dai toni epici.

I Depeche Mode ci provano senza però riuscire a centrare grandi pezzi come in passato, giocando in difesa fanno l’occhiolino ai vecchi fan, rendendo magari soddisfatti quelli più incalliti e portando a casa il risultato, senza suscitare però, ad essere onesti, lo stesso entusiasmo e soddisfazione di un tempo.