Credit: Fabrizio Lecce

Un sole rosso e rovente mi scorta mentre filo dritta verso il molo dell’antico Faro Borbonico di Bari. Il tragitto dalla stazione centrale è lineare e mi dico che se mantengo questo passo riuscirò a conquistarmi un buon punto per assistere alla seconda tappa del Locus Festival, che vede come protagonisti i Sigur Rós.  

Giusto il tempo di farmi largo tra le prime file e d’idratarmi. Poi, tra il fumo denso che avvolge il palco, spuntano, puntualissime, le sagome levigate di Jón Þór “Jónsi” Birgisson, Georg “Goggi” Hólm e Kjartan Sveinsson, accompagnate da un discretissimo Ólafur Björn “Óbó”Ólafsson alla batteria. Ad aprire il concerto, è “Glósóli”, un tuffo di cuore nel passato dorato di “Takk…”, che si schiude accompagnata da un campo di grano che oscilla lievemente sullo sfondo. L’esecuzione parte eterea e delicata, armonizzandosi con gli strascichi del tramonto infuocato sul molo, per poi virare pesantemente verso un sound molto più cupo e pesante, enfatizzato dai movimenti d’archetto di Jónsi sulla chitarra.

Con “Svefn-g-englar”, ripescata da “Ágætis byrjun”, secondo album della band islandese, luci e strumenti si fondono. La stessa voce di Jónsi si piega come una corda, come l’ennesima freccia dell’arco melodico della band, affilata e pronta a colpire. La magia della location si sprigiona: non tira un filo di vento ed il sound della band s’infrange sulla poppa dell’immensa nave attraccata alla destra del palco. Il rumore proveniente dai containers che vengono caricati a bordo è perfettamente in sincrono con i giri lenti di “Svefn-g-englar”. Le note rimbalzano ariose e i rimorchi rispondono a tono: metallo, sudore, suoni dilatati ed infinito. Una coincidenza stellare, uno spettacolo tanto assurdo quanto suggestivo.

Grazie soprattutto al prezioso ritorno di Sveinsson alle tastiere, la band mette in fila “Vaka”, “E-Bow” e “Dauðalagið”, rispolverando le atmosfere di “()”. Come per la data romana di qualche giorno fa, invece, l’unico brano tratto dal nuovo disco, “Atta”, è “Ylur”, eseguito poco prima di raggiungere metà setlist. Una virgola setosa che accompagna la partenza di una delle navi da crociera che, proprio in quel momento, salpa luminosa dal molo poco distante.

L’apice si raggiunge verso le ultime battute, con una meravigliosa esecuzione di “Festival”, che fa vibrare il pubblico vigorosamente, nonostante il caldo asfissiante. Vero e proprio fiore all’occhiello del live, che conferma la compattezza ed intimità di una band con ventotto anni di carriera alle spalle.

A far calare il sipario è l’evidenza di “Untitled#8 Popplagið”, altro gioiello, tratto sempre dallo stagionato “()”, che lascia tutti colmi, spianando la strada ad un rientro illuminato dai neon blu della guardia costiera. Birgisson e compagni ringraziano il pubblico placidi e spariscono dietro le quinte, lasciandoci a fissare i containers gialli della MSC, ai lati del palco, ancora sognanti.

Riuscire finalmente a vedere dal vivo i Sigur Rós dopo anni di curiosità e tentativi falliti è una sensazione strana. È una stretta che fa mi tornare indietro nel tempo, a tanti momenti lontani e a tante persone passate, ma che, al contempo, mi fa anche proiettare al futuro, e lo fa con una serenità aliena, che non riconosco mia. Il live della band al Faro Borbonico di Bari è la conferma di una certezza che cerco di avvalorare da circa vent’anni: un concerto dei Sigur Rós è un’esperienza che dovrebbero fare tutti almeno una volta nella vita. È un viaggio bellissimo, che tocca tutte le corde giuste, portando il pubblico a spaziare tra vette altissime ed oblio, pienezza e solitudine più nuda. È un viaggio in cui la band non prende per mano l’ascoltatore, ma lo lascia espandere gradualmente, come una brillante macchia d’olio. Grazie di aver confermato, se non superato le aspettative Sigur Rós. L’estate inizia con un’esplosione vista mare.