Per il suo quinto ed atteso album Anhoni riprende il filo concedendosi alla costruzione dei brani in un processo di scrittura che parte da semplici trame al piano con la preziosa costruzione dei fidati Johnsons di turno, riappacificando il veemente background dell’ultimo periodo grazie all’influsso della musica probabilmente più cara che ha accompagnato la crescita artistica del leader, quel black soul, alla Marvin Gaye per intenderci di cui si respira la brezza per larga parte delle canzoni di questo “My back was a bridge for you to cross”, dettandone un mood carico, intenso, ma appunto familiare, circoscritto all’entità dei musicisti coinvolti.

Credit: ANOHNI with Nomi Ruiz c. Rebis

Tranne l’interessante asprezza della chitarra in stranulato riverbero in “Go Ahead”, Anhoni abbandona la cifra elettronica del precedente personale “Hopelessness” per imbastire con pochi accordi delle canzoni soulful, dove l’anima del cantante newyorkese affonda nella profondità della purezza delle intenzioni in un contesto sonoro antico ed accogliente, che da “It must change” in poi vede il nostro crooner primeggiare col suo falsetto di immutata presenza, a volte in modo più blues rock (“Can’t”, “Rest”), a volte in modo più tranquillo nelle ballad (“Silver of ice”), affrontando i temi cari alla propria enorme sensibilità.

L’impegno e il dramma della sostenibilità ambientale è sempre presente, qui rispetto al passato non più come richiamo alle folle, meno sotto forma di grido di allarme, ma si vira metaforicamente verso un’idea di abbraccio universale alla madre terra nelle sua magnificenza, una appunto comunione fra condivisione dell’umane sofferenze con quelle della biosfera alla deriva; le riflessioni partono dal personale per proiettarsi in un infinito inevaso, chi siamo noi per meritarci tutto questo in sostanza, come dice in “Why Am I Alive Now”, siamo ancora qui a chiedere una speranza quando non sappiamo porci il problema, quindi perchè mai dovremmo averne una, di speranza.

Certo, siamo qui, l’amore non basta per essere solo un capro espiatorio (“Scapegoat”), non serve prendersi delle colpe per quello che siamo (“It’s My Fault”) anche se alla fine comunque vada saremo tutti in grado di liberarci (“You ber free”), per essere sintetici con i convincimenti lirici di questo “My back was a bridge for you to cross” che a volte cedono all’autoindulgenza tipicamente autoriale, ma l’album in sè rimane convincente soprattutto dal punto di vista musicale, presenta una band affiatata, che rifonda con classe tutto un repertorio di sentimento che solo le band collaudate possono attingere da questo genere di musica delle origini, in una versione che comunque vede Anhoni perfttamente in sintonia col flusso del feeling, si sente dalle code di certi brani, da come il suono esplode nei i momenti migliori di un album tutto sommato di passaggio.