Credit: Giovanni Davoli

Tutto quanto stiamo per raccontare non ha niente a che vedere con l’Indie. Stiamo per raccontare di 60.000 persone accalcate e sudate, anche a centinaia di metri dal palco, per un megaevento che vede come protagonista un rapper che ha sbancato le classifiche di tutto il pianeta negli ultimi 10 giorni. Stiamo parlando non di un concerto, perché di musicisti sul palco non se ne sono visti. Al massimo, un tipo che smanettava alla consolle. Stiamo parlando di uno spettacolo che ha fatto, letteralmente, tremare la terra sotto Roma. Con diversi ignari cittadini che sui social chiedevano se c’era il terremoto; sarà per il volume stratosferico della musica e dei bassi profondi, o sarà per i salti sincronizzati dei 60.000. Stiamo parlando della ragazza adolescente canadese vicino a noi, che era in estasi. Perché casualmente si trovava a Roma in questi giorni in vacanza e aveva modo e motivo per suscitare l’invidia dei suoi amici rimasti a Montreal. E mentre il fratello grande la difendeva dalla folla che pogava violentemente, lei urlava la sua eccitazione al cielo di Roma. Incontenibile poi, quando sul palco è salito anche Kanye West, che lei chiama “il fascista”, anche se è il suo artista preferito.

E’ così. E il popolo dell’Indie deve ammettere la sconfitta, ammesso e non concesso che a quel popolo, in teoria il nostro lettore di elezione, interessino affatto le competizioni e le sfide. Ma questa l’abbiamo persa. Così come abbiamo perso questa generazione di adolescenti/ventenni che, in maggioranza, affollava il Circo Massimo. Ai quali delle melodie sussurrate, delle chitarre e delle produzioni sommesse non frega una mazza. Questo popolo qui vuole ballare, vuole pogare, vuole saltare, vuole urlare a squarciagola. Anche se, quando Travis ci porge il microfono, una specie di silenzio va disperso nella brezza del ponentino romano: siamo italiani e chi cavolo le sa le parole. Un bel coro lo abbiamo sentito solo su “I KNOW?”, ma va beh, quella era facile.

Improbabile dunque, ma Roma questo agosto, per una notte, è stata la capitale dell’hip-hop mainstream. Chi lo avrebbe mai detto che Travis avrebbe scelto l’Italia dopo che le piramidi di Giza gli erano andate buca. Che poi sia stata tutta una sana operazione di marketing per far esplodere l’hype, compreso l’annuncio del concerto fatto solo 6 giorni prima e ad agosto cominciato, sono in molti a sospettarlo. Ma poco importa: ha funzionato tutto e non ci sono stati morti come in Texas due anni fa. E Roma è sulla mappa dei grandi eventi. I ragazzi tornano nelle loro case romane, piuttosto che d’oltreoceano, con qualcosa da raccontare e ricordare per sempre. “Io c’ero nel 2023 a Roma con Travis e Kanye” diranno a figli e nipoti (se ne faranno, ovvio).

E noi? Noi ci siamo seduti per ore sui sassi, la polvere, la spazzatura accumulata, inalando le sigarette e le canne altrui, quando ancora c’era il sole. Poi, al calar del sole e con la schiena ormai incrinata, ci siamo alzati e strizzati con gli altri 60.000, rischiando ogni volta di essere travolti quando il pubblico impazziva o formava uno di quei cerchi infernali nei quali si va a pogare. Finché scappando da uno di essi ci siamo ritrovati magicamente qualche metro più in là, laddove la folla non spingeva così tanto e il palco, pur a cento metri buoni, si vedeva bene. Travis era solo un punto lontano e lo spettacolo vero era sui megaschermi. Su un paio di canzoni ( come “DELRESTO” e “TELEKINESIS”), il palco era letteralmente vuoto e stavamo assistendo a nient’altro che uno spettacolo di luci e suoni. Ma noi ci siamo lasciati comunque andare all’energia, alla scaletta incentrata sul recente successo planetario “Utopia, all’eccitazione collettiva. Probabile che ci scorderemo presto questi ritmi e ritornelli, tanto catchy quanto leggerini e che suonavano così uguali al disco (anche perché era il disco che suonava). Ma intanto: “anche io c’ero a Roma nel 2023“.