Negli ultimi anni, diversi protagonisti degli anni Novanta britannici si sono lanciati nella realizzazione di autobiografie, la cui lettura, tra le altre cose, ha aiutato i fan, soprattutto quelli non residenti nel Regno Unito, a farsi un’idea migliore di cosa stesse succedendo dietro le quinte in quel periodo di grande fermento. Al gruppo si è aggiunta, lo scorso autunno, Miki Berenyi, la frontwoman dei Lush, e il suo punto di vista risulta particolarmente interessante perché parte da una prospettiva un po’ diversa. I Lush, infatti, da un lato non sono interamente radicati negli anni Novanta, perché, infatti, hanno iniziato alla fine del decennio procedente, e, dall’altro, sono sempre stati visti come degli outsider, nonostante due dei loro tre album siano finiti in Top 10 nelle classifiche di vendita.

Di conseguenza, il racconto di Berenyi è quello di un’artista e di una persona che non ha quasi mai accettato di dover scendere a compromessi per ottenere il successo vero, e, proprio per questo, una volta che i Lush si sono sciolti, non ha sofferto di alcun trauma, non si è buttata nel consumo di alcolici o droga, non si è trasformata in un relitto per via della mancata accettazione della fine del glamour. Semplicemente, la Nostra si è data da fare, ha trovato un lavoro normale, ha messo in piedi una famiglia e ha iniziato a vivere come fanno molti di noi. Certo, l’ha aiutata avere a fianco già in quel periodo il suo attuale compagno, anche lui frontman di una band che aveva iniziato sul finire degli anni Ottanta, ovvero i Moose, ma l’aspetto più importante è stata la scelta di privilegiare la propria identità musicale rispetto al bisogno di successo, fianco a fianco con la co-leader dei Lush, Emma Anderson. Il rapporto tra le due è stato un continuo equilibrio tra amicizia, incomprensioni e competizione, ma in questo sono sempre state dalla stessa parte, ed è stata la loro salvezza come persone.

Il quasi di cui sopra si riferisce al fatto che il terzo disco della band, quello con le hit più famose, è stato apertamente realizzato tenendo in mente soprattutto i gusti predominanti del pubblico e il fatto che, se non fosse arrivato un piazzamento tra i migliori dieci, la band non avrebbe più potuto andare avanti. “Ladykillers”, ad esempio, è descritta onestamente come il tentativo per eccellenza di scrivere una hit, non il frutto di chissà quale evoluzione artistica, però va detto che la qualità in questo e negli altri brani del disco è indubbia, per cui è vero che c’è stato un compromesso, ma solo dal punto di vista stilistico, e non anche da quello qualitativo. Inoltre, un testo che consiste in un’invettiva contro un certo tipo di maschi che fanno i rimorchiatori seriali solo per compiacere la propria vanità non è certo scontato in un periodo musicale in cui tutto era incentrato sui musicisti e sul pubblico maschile, ma Berenyi e la sua band non si sono fatti problemi. Tra l’altro, il maschio a cui l’autrice si riferisce è nientemeno che Anthony Kiedis, nel periodo in cui i Lush hanno fatto parte del carrozzone del Lollapalooza.

Oltre che dal successo, e dalle sue nefaste conseguenze, la fedeltà alla propria identità musicale ha salvato Berenyi anche dalle proprie debolezze come persona. L’autrice, infatti, espone candidamente tutte le proprie insicurezze, il proprio bisogno di sentirsi parte di un gruppo e il disagio nei momenti in cui si sente isolata, nonché la propria incapacità di rimanere fedele in qualunque relazione abbia avuto prima di quella col padre dei propri figli, con la promiscuità come parte integrante della propria vita. Il lettore prova molta empatia nei confronti di Berenyi, poiché ella racconta, con dovizia di particolari, un’infanzia che definire tribolata non renderebbe l’idea, con due genitori a cui l’autrice vuole bene ma che non sono stati assolutamente in grado di svolgere il proprio compito, e la nonna paterna, purtroppo molto presente, che è un vero e proprio mostro, senza giri di parole. Razzismo, antisemitismo e, soprattutto, abusi sessuali nei confronti sia del figlio che della nipote, queste le caratteristiche di colei che, più di ogni altra persona, ha rappresentato la figura genitoriale per Berenyi.

Come può diventare, da adolescente e almeno fino ai trent’anni, qualcuno che cresce in questo modo? Insicura e promiscua, e infatti questo diventa Berenyi, che comunque ha il merito di non cercare scuse. È vero che ha avuto l’infanzia che ha avuto, ma le scelte fatte in seguito sono solo sue e la colpa è, quindi, unicamente sua. Anche perché, come detto, tra le scelte c’è stata anche quella di buttarsi nella musica senza remore e, una volta arrivata a un punto in cui, per fare il salto ulteriore di popolarità, per una band capeggiata da due donne in quel periodo era necessario scendere pesantemente a compromessi, decidere che la musica fosse più importante del successo. E questa scelta l’ha salvata.

Dal trasporto con cui ho descritto il libro non dovrei nemmeno dirlo, ma, a scanso di equivoci, la lettura è altamente consigliata, anche perché la scrittura è ottima, grazie soprattutto alla sua capacità di trattare argomenti difficili e spesso drammatici con un tono per nulla commiserevole. Bravissima Miki, ci voleva proprio un’autobiografia così!

Editore: Nine Eight Books
Autore: Miki Berenyi
Lingua: Inglese
Pagine: 384 pagine
ISBN: 1788705556