Una fucina di idee e di percezioni che, spesso, traevano origine proprio dalle esperienze più straziati e dolorose, dalle contraddizioni dell’America profonda e che solamente il contatto intimo con la natura, con i suoi silenziosi equilibri, con i suoi ritmi antichi, con i suoi rumori improvvisi e con le voci degli animali selvatici, riusciva, in parte, a lenire.

Un’overdose di bellezza, di pace e di serenità che, come un fiume in piena, rischia di abbattere gli argini degli spiriti più puri, innocenti e sensibili, facendo sì che il vuoto si insinui a poco, a poco tra i loro pensieri, affamando il cuore e spingendoli, sempre più, tra le grinfie di quelle ombre striscianti che assaltano la realtà, alterano ogni prospettiva di futuro e li obbligano a vivere in una dimensione sempre più irrazionale, aliena e estraniante.

Eccoli, dunque, i fatidici “uccelli del dolore” che oscurano i nostri orizzonti, mentre una voce lontana riporta alla luce canzoni che sembrano provenire da un altro universo, da una dimensione senza né inizio, né fine, nella quale tutto è eterno ed i corpi si dissolvono e si trasformano, in maniera assolutamente veritiera e senza alcuna ipocrisia, in pura melodia. Non c’è più alcun dolore, alcuna sconfitta, alcun lamento e anche la pioggia che cade sui vetri frantumati o sui fili d’erba, assume una consistenza appagante, riempitiva e catartica.

Intanto elementi sonori onirici, folkeggianti e introspettivi si mescolano a trame alternative-country, si scontrano, a volte, con improvvise esplosioni di feedback e distorsioni, per poi ritornare, dolcemente, sui propri passi e trasformarsi in un canto sottile, arcaico e malinconico; un canto che ha il profumo del legno, della terra umida della Virginia, di una vecchia fattoria, di un bosco, apparentemente solitario, che, invece, è pieno di vita, di sguardi vivaci, di occhi fuggenti, di creature che fissano, incuriosite, i cavi, gli amplificatori, i microfoni, le casse, le tastiere, i pedali e gli effetti delle chitarre e tutto quello che Mark LinkousSparklehorse – utilizza per comunicare con il mondo esterno e per metterlo a conoscenza di quanto possano essere potenti e penetranti un’alba nebbiosa, una campagna isolata, una foresta selvaggia, una condizione di apparente isolamento nella quale, invece, riusciamo a sintonizzarci con ogni battito cardiaco, ogni contrazione muscolare, ogni impulso nervoso e ritrovare in essi la voce della natura, la voce della nostra stessa coscienza, la voce di Dio.