Che bello ritrovare i cari Ash sotto l’etichetta Fierce Panda. Tutto mi riporta indietro nel tempo, alla mitica compilation “Nings Of Desire” del 1995, dove gli irlandesi svettavano con il classico “Punk Boy”. E poi, diciamocelo, vedere il sorriso stampato sul volto di Tim Wheeler è qualcosa che, da sempre, mi infonde ottimismo e simpatia, sembra davvero aver fermato il tempo questo ragazzo. Gli Ash sono una band ormai in pista da una vita eppure tutte le loro uscite hanno sempre qualcosa che cattura la nostra attenzione, qualche canzone sopra la media, un ritornello, un giro di chitarra…da un loro album trovi sempre qualcosa per esaltarti e questo perché dischi con il pilota automatico gli Ash non sono capaci di farne. Non ne hanno mai fatti e quel sorriso di Tim è sempre stato vero, mai nulla di costruito.

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Il nuovo album “Race The Night” più che agli Ash sbarazzini, sembra guardare con affetto al periodo “Nu-Clear Sounds” e “Meltdown”, con chitarrone iper cariche che ce la mettono tutta a saturare l’aria, ricche di riff belli pesanti e “Like A God” ne è fervido esempio, ma possiamo anche citare “Braindead” in cui pare di sentire i QOTSA, “Over & Out” o il riffone quasi metal di “Double Dare”, brano però non memorabile, che sembra fare il verso alle formazioni rap/metal anni ’90 con tutti quei corettoni, ma risulta decisamente fuori tempo massimo e annoia non poco col suo fracasso tirato fin troppo per le lunghe.

Non mancano a dire il vero anche rimandi agli Ash più freschi e pure romantici se vogliamo: ecco “Usual Places” che viaggia in allegria sui territori che forse più preferisco di questa band o la brevissima “Peanut Brain”, che rispolvera le radici pop-rock-punk con quelle linee vocali che ci fanno impazzire, mentre “Oslo” è la ballatona da accendino (no telefono cazzo, accendino!) alzato.

Intendiamoci, niente che ci possa far impazzire. Con la macchina in copertina, la band è come se ci invitasse a piazzare il disco mentre ci facciamo un bel viaggetto, sottofondo più che piacevole, certo, ricco di rimandi al passato della band ma nulla che ci faccia gridare al miracolo, dobbiamo essere sinceri, anche se almeno un paio di chicche (come dicevo in ogni disco degli Ash qualche perla si trova sempre, poco da fare) ci sono. La prima è “Reward In Mind”, che in un attimo trova riff perfetto, freschezza, e ritornellone costruito alla perfezione come gli Ash sanno fare e poi la surreale “Crashed Out Wasted”, quasi al confine con il prog, che comincia con una morbidezza pazzesca, incentrata su tastiere delicatissime e impasti vocali che a me fanno quasi venire i lacrimoni ma poi ecco che Tim prende il controllo e via di assoloni uno dietro l’altro per 2 minuti e mezzo: so già che quando sentirò questo brano dal vivo mi porterà ad estraniarmi completamente dalla realtà, portandomi sulla luna, volando tra melodie e assoli.

E così il 7 in pagella per i nostri Ash è assicurato, perché anche stavolta ci sento cuore, passione. Si, forse non sono più capaci di piazzare ritornelli micidiali come in passato e cadono nel gioco (non così drammatico in fin dei conti) delle citazioni, ma oh, sono in giro da più di 30 anni e riuscire a fare ancora album così sinceri e piacevoli, beh, tanto di cappello.