A volte vorremmo essere riportati a casa come gli eroi feriti dei film; a volte vorremmo tornare all’inizio e ricominciare da capo. A volte, semplicemente, e’ troppo tardi e, malgrado il desiderio e l’incessante adoperarsi, non e’ possibile tornare ad essere quelli di un tempo. Questo e’quanto accaduto ai Travis, almeno a sentire il loro ultimo lavoro.

“The Boy With No Name” continua infatti il percorso discendente, iniziato con “12 Memories” (Independiente, 2003) e proseguito con il greatest hits Singles (Independiente, 2004), mostrando il lato oscuro (= peggiore) della band di Glasgow. A rimetterli sulla giusta rotta non basta nemmeno la produzione raffinatissima, affidata ancora una volta a Nigel Goldrich, affiancato nientemeno che da Mike Hedges e Brian Eno (!). Anzi, è proprio quest’ultima a far mancare la determinante scintilla di sperimentazione, condannando al fallimento i pur timidi tentativi del gruppo di uscire dalla prigione-pop che si è cucito addosso: l’incipit southern rock di “3 Times And You Loose”, i tamburelli e clap hands di “Selfish Jean” o il folk di “Out In Space”.

Le mura di questo isolamento musicale si rivelano infatti troppo alte per poter essere scavalcate. Ai quattro scozzesi non resta che la via del ritorno al passato, proponendo i soliti attacchi chitarra acustica + elettronica, i soliti ritornelli (oggi più ruffiani che mai!) e lasciando alla voce di Healy il compito di reggere la baracca (“Battleships”). Proprio la vita privata del frontman (matrimonio, nascita del primo figlio – da cui il titolo dell’album) ed il successo commerciale hanno – forse – minato irrimediabilmente l’ispirazione in chiave compositiva della band: partiti da “Paris, Texas” di Wenders (Travis è il nome del protagonista) e Francois Truffaut, corrono ora il rischio di finire nella colonna sonora di qualche blockbuster o spot di telefonia. Arrivati a questo punto, sorge spontaneo il dubbio (nella speranza di essere smentiti) se non sia il caso di abbassare la saracinesca – Cranberries docet.