Segnaliamo con assoluto entusiasmo il ritorno di Emma Anderson. Chi apprezza lo shoegaze la ricorderà sicuramente nei Lush, eppure sarebbe un delitto dimenticare la pure breve esperienza in quei Sing-Sing che uscivano per Fierce Panda. Poi la fanciulla è sparita dai riflettori fino alla nuova reunion dei Lush. Breve pure quella, purtroppo.

Mentre Miki Berenyi fa ancora parlare di se per il progetto Piroshka, sembrava ancora arrivato il momento per Emma di eclissarsi di nuovo e invece ecco la sorpresa con la Sonic Cathedral che annuncia il suo primo album solista. E che album!

La premiata ditta Emma e James Chapman, produttore e collaboratore, lavora benissimo nel mescolare magie dal sapore cinematografico che guardano tanto al dream-pop quanto a un folk dal sapore anni ’60. Ho usato il termine cinematografico perché davvero in più di un momento mi sembra proprio che queste canzoni possano essere parte di una colonna sonora, tale è il loro potere evocativo, sia nell’infondere una sottile inquietudine, sia, al contrario, nel dimostrarsi ariose e rinfrancanti.

Il lavoro sui particolari è lodevole: synth ed eletronica che “flirtano” con le chitarre. Il collante è la voce delicata e magnetica di Emma, che si adatta ad ogni situazione. Mi piace come la Anderson sappia stuzzicarci con sapienti richiami alla sua band precedente, ma è come se fossero deliziose citazioni, piccoli frammenti disseminati nei punti giusti che però non disturbano e non inficiano il quadro generale.

Che l’ispirazione sia su ottimi livelli lo si capisce fin dal primo brano, la meravigliosa “I Was Miles Away”, che vede anche la partecipazione di Richard Oakes dei Suede (la sua chitarra fa capolino in ben 5 canzoni). Una canzone elegante e suggestiva, con un climax di rara eleganza creato ad arte. Quell’organo iniziale potrebbe indurci a pensare che la nostra Emma voglia muoversi su sentieri più spartano e invece eccola aggiungere sempre più pezzi al suo puzzle sonoro, per arrivare a quel finale così sonico e rigoglioso: un vero e proprio sogno ad occhi aperti.

Le atmosfere sognanti e delicate fanno spesso capolino, ma sono sapientemente mescolate con altri ingredienti, pensiamo al leggero groove di “Bend The Round” ol taglio scintillante, accattivante e pop di “The Presence”.

Se “Taste The Air” e “Xanthe” costruiscono sottili trame dal sapore noir, lasciando che siano i pochi ma incisivi elementi a farla da padrone, ecco che il mondo bucolico di “Willow and Mallow” sembra rinfrancarci, riportandoci indietro nel tempo. Un folk pastorale dal sapore antico, che ancora trova sublime grazia nella voce di Emma e in percosi melodici limpidi e avvolgenti.

Impossibile non citare altre 3 perle vere e proprie che nobilitano l’album. “Inter Light” racchiude in pieno quella valenza cinematografica di cui parlavo sopra, ha una base mi rimanda alle serie anni ’60, con quel tocco poi nel finale che profuma di psichedelia sci-fi: mi viene in mente Dot Allison. “For A Moment” è pronta a giocarsela con le cose migliori dei Beach House, mentre la conclusiva “Clusters”, con Emma che ci preannuncia “Now the party’s over / The music’s at the end“, sa ancora una volta costruire il suo crescendo in modo perfetto, facendoci muovere e ballare, con più di un rimando ai Lush. Un cerchio che si chiude verrebbe da dire.

Morale della favola…bentornata Emma e, adesso, per favore, non scomparire di nuovo!