Sembra ieri, eppure sono passati un bel po’ di anni. Per un recensore, a volte, risulta piuttosto difficile scindere quelli che sono i propri gusti e trascorsi personali da ciò di cui si andrà a scrivere e ad occupare. Si tratta di una delle cose più difficili in assoluto. E per quanto mi riguarda, approfondire il nuovo album dei Jesus And Mary Chain significa dover fare i conti con una sorta di “bagaglio emozionale” non indifferente.

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Sembra ieri, dicevo. La prima volta in cui ho ascoltato un pezzo(ne) della band scozzese. “Happy When It Rains”: ovvero, un’apoteosi sonora di tre minuti e trentasette secondi estrapolata da quel discone altrettanto iconico che risponde al nome di “Darklands”. L’universo, del resto, è pieno di misteri da esplorare e quello relativo all’ascolto primordiale di una traccia che poi ti farà innamorare per sempre (e perdutamente) di una band, ne rappresenta uno dei più magici e sfavillanti. L’adolescenza, probabilmente, è stata inventata anche per questo.

Fatta questa doverosissima premessa, il nuovo disco di Jim e William Reid – “Glasgow Eyes” – è una squintalata di suoni – fatti alla loro maniera – in cui i Nostri si divertono a declinare sotto ogni forma ed aspetto, ciò che dovrebbe essere uno dei comandamenti fondamentali di ogni formazione musicale che si rispetti: essere sé stessi e fregarsene allegramente di inutili ed oltremodo tediose aspettative.

Nei dodici brani che vanno a comporre la tracklist dell’album in questione, infatti, i Jesus And Mary Chain amano spaziare da un’atmosfera all’altra, “inquadrando”, di volta in volta, l’angolo più sofisticato su cui porre la propria, certosina cura per i dettagli. Un po’ come scafati registi di un film d’autore piuttosto originale. Ascoltare dei brani come “Discotheque” o “Pure Poor”, infatti, equivale a guardare due facce della stessa medaglia, ma diametralmente opposte e sufficientemente complementari affinché l’ascoltatore si possa ritrovare in una sorta di bolla immaginifica dove disperdere tutte le proprie, pregiudizievoli certezze.

Tuttavia, per chi scrive, non si tratta di certo dell’album dell’anno, ma di un album d’annata. Ossia di una di quelle opere che restano incapsulate nel tempo come vecchi messaggi in bottiglia. Come potrebbe essere altrimenti, del resto, ascoltando brani in odor di epica quali “Silver Strings” e “Chemical Animal”? Va da sé, naturalmente, che “Glasgow Eyes” non sia affatto un lavoro in cui i Jesus And Mary Chain giochino a rimestare le cartucce del passato, tutt’altro.

L’intento primario dei Reid, infatti, è quello di provare a trasportare la loro musica ad un livello successivo. Melodia e profondità. Sono un po’ queste, del resto, le attitudini principali di un disco che si innalza ben oltre la sufficienza, poiché scevro da tutti quei dettami fumosi (e per nulla sostanziosi) della maggior parte degli album odierni. Meno orpelli e più Poesia. “Gli occhi di Glasgow” sono anche questo. 

Soprattutto questo.