Alla seconda prova ravvicinata il duo di Liverpool conferma e raddoppia la sensazione della nuova big thing, con un album che rafforza l’idea del loro straordinario amalgama, virando in modo deciso verso un immaginario di forma e sostanza a stelle e strisce, conseguenza del recente tour americano, base degli spunti per la scrittura delle canzoni.

Credit: Ebru Yildiz

Tra i brani di “Big Swimmer”, titolo già di per se da grande romanzo americano del secolo scorso, Faulkner, ma anche perchè no, il simpaticone di Frentzen, si sente il respiro ruvido e sferzante delle grandi aree desolate americane, un non luogo cinematografico di stringente contagio, che vede nell’epopea del viaggio una fonte di ispirazione per giovani rocker in cerca di una identità. Un classico che si ripete, si direbbe, della formazione delle nuove leve, quelle buone e ricettive, che sanno abbeverarsi dove QUEL suono è nato e riescono a cogliere e tradurre la forte percezione attrattiva di questo percorso di iniziazione.

Perchè King Hannah qui continuano ad essere intensi e profondi come in “I’m not sorry I was just being me”, ma decisamente più a fuoco e più nel solco della tradizione , allontanandosi musicalmente, ma neanche più di tanto, da atmosfere lynchiane del primo album, continuando però a calcare territori onirici con riferimenti non solo evocati ma ben localizzabili, come la bellezza di soggiornare alcuni giorni a New York o da qualche parte vicino El Paso, insomma l’idea della frontiera che conquista, il piacere di allontanarsi da un perimetro noto verso qualcosa di riconoscibile ma precedentemente mai visitato, solo abbozzato interiormente.

“Big swimmer” contempla la solennità di certe aperture da grandi ballate rock lunghe e travolgenti (l’iniziale titletrack ad esempio) ad abrasive connessioni con lo stoner rock che fa il verso alle Desert Sessions di Josh Homme (“Somewhere near el Paso”, “Milk Boy”, molte altre) e con il rock post grunge che prende a piene mani dal Neil Young più elettrico e rumoroso, con una parte centrale difficilmente eguagliabile per ritmo, espansione e intensità, dove esce la netta sensazione dell’emergenza della scrittura di questi brani, a cui il duo, si immagina, non poteva sottrarsi: canzoni tutto sommato semplici, appartenenti alla storia di furore rock a cui ciclicamente ci viene restituita degna testimonianza e alla quale non si riesce a resistere, canzoni come “Lily Pad” o “Milk Boy” ad esempio , la stessa “New York Let’s do nothing”, raccolgono l’immediatezza dell’ispirazione, riescono a catturare e riflettere l’esperienza del passaggio nel sottobosco americano, con una forza profonda e genuina.

Emerge sempre di più la bravura di Hannah Merrick in una ammaliante interpretazione, così lontana dalla sua giovane età e dalla minuta figura che ne dà voce, avvicinandosi qui, maggiormente che in passato, allo spoken dei compagni britannici Dry Cleaning, ma soprattutto dando corpo ed intensità da esperta maestra di cerimoniale country in ballate spettacolari come “This wasn’t intentional”, che si sposa con un blues delle radici di rara aderenza; dall’altra parte, Craig Whittle invece continua a stupire per la facilità di esecuzione della 6 corde, passando con la sensibilità acerba e sfrontata di una classe precoce dal veloce al lento, a volte rendendo al massimo la liricità della distorsione, a volte entrando come una furia nel cambio ritmo, insomma dando ampia dimostrazione di un accorto lavoro di personale interpretazione di ogni sinolo brano, non arrivando alla conclusione più scontata, ma cercando di sorprendere sempre lo spettatore, anche in pezzi canonici, vedasi di “Somewhere near el Paso” con uno splendido finale che accompagna il solito deep blues dentro la devianza noise della gioventù sonica.

Un album immancabile in questo 2024, riconciliante in ogni momento, una convincente conferma, uno di quei casi in cui le trepidi attese sono ampiamente superate dai risultati, da suonare e suonare e continuare a far scorrere nella corrente.