In storia dell’arte esiste il concetto di democratizzazione della sfera religiosa, che sta a indicare l’accorciamento della distanza posta tra osservatore e opera d’arte (ovviamente di soggetto divino). Il punto di massima distanza si ha con l’arte bizantina: sfondi dorati, figure idealizzate, nulla di più lontano dal popolo di fedeli plebei che in chiesa assistevano a tale magnificenza. All’altro estremo dello spettro troviamo invece artisti come Caravaggio, colui che ha portato la democratizzazione al livello più alto con cui sia mai stata rappresentata: vagabondi e prostitute presi dalla strada per fare da modelli ai dipinti, un estremo realismo e un più che deciso contrasto di colori. Per la prima volta, il sacro veniva reso davvero umano. Le divinità , ormai scese dai piedistalli su cui erano state poste in precedenza, erano così reali da lasciarsi quasi toccare. Ecco, in questo senso AURORA può essere definita come il nostro Caravaggio.  

Il quarto album in studio dell’artista norvegese (chiamato appunto “The Gods We Can Touch”) presenta 15 brani, ognuno dei quali dedicato a una particolare divinità  greca, da Gaia (la dea madre da cui si origina ogni cosa, per intenderci) in “The Forbidden Fruits Of Eden” ad Afrodite in “Exist For Love”. L’idea parte dalla voglia di trovare (o meglio, riconoscere) la bellezza nell’imperfezione, nel ricordare l’importanza dell’antropomorfizzazione delle divinità  greche: ognuna di queste era descritta come un essere umano qualunque con tutti i propri pregi e difetti, senza mai perdere il proprio status divino. AURORA cerca dunque di riprendere questo concetto in primis ricordando all’uomo che la sua bellezza sta proprio nel suo essere non finito, nei suoi sbagli e nelle sue imperfezioni.

Allo stesso tempo, però, non manca la critica sociale, come quella alle terapie di conversione per l’omosessualità  presente in “Cure For Me”.   Il tutto con il sound colorato ma etereo dell’artista, che nel disco si è cimentata anche in un feat con Pomme (“Everything Matters”). Si tratta di un duetto che celebra le piccole vittorie di ogni giorno, quei piccoli miracoli persi di vista perchè oscurati da altri eventi ritenuti più importanti – alla fine della giornata, però, tutto conta, ogni singolo dettaglio va vissuto e festeggiato, per quanto semplice possa essere. Dopotutto, anche un pezzo così semplice e delicato come questo riesce a spiccare tra le canzoni dell’album.  

“The Innocent” è sicuramente uno dei brani più riusciti dell’intero disco. Ispirato a Eros, dio dell’amore (inteso come sentimento erotico), è il pezzo che più si distingue per differenza di sound e tematica da cui prende ispirazione – la sessualizzazione inutile e quasi ossessiva dei corpi umani, il rendere qualcosa di puro mera carne da macello. Un pugno allo stomaco (nonostante sia un pezzo anche parecchio piacevole all’ascolto), che lascia poi spazio a un momento di respiro, di ritorno a un calmo e dolce synth pop: come il titolo stesso suggerisce, “Exhale Inhale” è un vero e proprio invito a lasciarsi andare, riprendere fiato e riconnettersi alla propria realtà . è la calma dopo la tempesta, che però prospetta un paesaggio catastrofico, quasi apocalittico (seppur non molto lontano dalla realtà  effettiva in cui ci troviamo): alberi a terra, ghiacciai che si sciolgono. Ricorda qualcosa?  

Tra la malinconica “A Dangerous Thing” e la sensuale “Artemis” (un invito a un tango, in pratica), “The Gods We Can Touch” riesce a compiere ciò che si era prefissato di fare: arrivare dritto al cuore degli uomini, ricordando loro che per cercare dio non serve scavare chissà  dove, volare nello spazio o distruggere un intero pianeta nella speranza di salvarsi ugualmente. Non è necessario tutto questo, perchè ascoltando “The Gods We Can Touch” si capisce benissimo: tutte le divinità  a cui AURORA si è ispirata si possono toccare perchè sono specchio delle nostre emozioni, di tutti i vizi e le virtù che ci accomunano. Questo disco ci fa scoprire, assaporare e godere l’essere divini in ogni secondo, fino alla fine della solenne outro “A Little Place Called The Moon”. In breve, possiamo davvero dire che dio siamo noi.