E’ buio.
Guido senza fretta.
La strada sembra venirmi incontro e perforarmi il petto, per poi uscire dalla schiena e continuare il suo macabro gioco infantile con altri ignari automobilisti. Ho appena terminato l’intervista con Finn Andrews e il mio sguardo è fisso verso il vuoto più profondo dell’universo. Rimango immobile nel captare la voce rotta e disperata che esce dalle casse. Non c’è nessuno davanti al mio motore e gli alberi sembrano aver abbandonato già  da molto tempo la sottile speranza di poter comunicare con anima viva. E’ solo quando la title track si diffonde in modo piuttosto prepotente dai finestrini semi aperti che mi accorgo della mancanza del tocco delicato della pioggia sul parabrezza e sulle labbra. Peccato. Sarebbe stato l’elemento naturale conclusivo perfetto, di una giornata faticosa, intensa ma piena d’emozioni. All’improvviso sparisce tutto.

Rimane l’essenziale.
La notte.
Il silenzio.
Innegabile come sin dagli inizi la figura del cantante dei Veils mi abbia affascinato: ascoltavo il romanticismo agrodolce di “The Runaway Found” e mi convincevo sempre di più di come quel ‘tocco di qualità  profonda’ fosse una cosa già  vista dentro la figura di Jeff Buckley, Patti Smith, Micheal Stipe e altri che trascina(va)no dietro di loro un’aura oscura, maledetta”…tremendamente affascinante. Ad Andrews non importa niente delle fotomodelle, delle copertine sulle riviste o dell’ammirazione della gente. Uno che, giovanissimo, scappa dalla Nuova Zelanda per andare a Londra in cerca di fortuna con una chitarra e qualche canzone in tasca è già  un tipo interessante. Uno che imprime su disco la maledizione di un uragano devastante che a distanza di due anni sconvolgerà  realmente gli occhi dell’America e del mondo (“The Valleys Of New Orleans”) non può non essere preso in considerazione. Sognavo ascoltando Vicious Traditions; sogno adesso perdendomi dentro le linee psichedeliche e velenose di “Not Yet”. Dopo il debut, della formazione originale è rimasto solo questo esile frontman dagli occhi tristi e dalle corde vocali dilaniate, che è forse attualmente anche troppo sensibile e timido in un mondo indie rock sfrontato, aggressivo, ‘molto fast food’ fatto di band ‘cotte e mangiate’, mode che durano mezz’ora e sentimenti veramente poco nobili.

Le influenze maggiori rintracciabili in “Nux Vomica” raccontano dei Doors di Bob Dylan, della psichedelia pop dei Verve e il sentimento poetico allucinato di Patti Smith. Un disco molto più ‘corale’, orchestrale e arrangiato in maniera più varia di “The Runaway Found”, che rimane comunque un ottimo esordio. Ma, mentre nel debut c’erano anche un paio di canzoni “deboli” che concedevano tutto o quasi al pop e all’immediatezza dell’ascolto, qui si fatica a trovare una canzone scadente o anche solo apparentemente incompleta. Questo disco ha classe anche nei momenti più “leggeri”. A volte si ha l’impressione di ascoltare il folk un po’ ipnotico e sognante di Devendra Banhart rimescolato in chiave garage da Jack White. Non c’è il pop fine a se stesso, c’è il pop con il solo scopo di emozionare e far pensare a qualcosa di speciale, di personale, magari di introvabile. Il tuo pugno non deve avere come riferimento la faccia dell’avversario, ma il muro che c’è dietro: i nemici non vanno picchiati e basta, vanno picchiati ATTRAVERSO. Ecco”… il nuovo disco dei Veils penetra e fuoriesce dalla vostra anima con estrema disinvoltura. Se l’avesse ascoltato il buon vecchio Bruce Lee adesso il Jet Kune Do sarebbe tutta un’altra storia!