Quella che per due ore è stata una fornace urlante di tralicci di metallo, luci e fumo, si spegne. Il palco rimane buio come una bocca meccanica inesorabilmente vuota, come se Trent Reznor uscendo verso le quinte avesse risucchiato tutto dietro di sè in un buco nero. Ce ne stiamo pochi minuti ancora storditi e sudati, forse senza fiato, di fronte a questa nera bocca oscenamente spalancata mentre inizia a pioverci addosso la luce color ruggine dei lampioni neon dell’ Ippodromo delle Capannelle di Roma.
Siamo quella massa di carne vivente con mille braccia tese che per due ore si è contratta e dimenata come un unico organismo davanti alle onde sonore dei Nine Inch Nails. E ora che si abbassano le luci, ci smontiamo smarriti ricominciando a sentire addosso l’aria tiepida, ed è come uscire di nuovo dal ventre materno. Vorremmo altra musica per tornare indietro.
Me lo immagino che un giorno arrancherò canuto nel pogo con una sbilenca sedia a rotelle ancora chiedendomi come cazzo si fà  a vivere un concerto rock standosene seduti su una tribuna.

Il Trent Reznor di oggi, quello risorto dopo la spirale distruttiva culminata con il tour che seguì l’album “The Fragile”, è a 44 anni niente meno che l’icona di se stesso. Piantato saldamente al centro del palco l’asta del microfono è il suo timone, è il capitano Achab che grida ordini al comando del suo vascello Nine Inch Nails, mentre tutto ondeggia paurosamente nella tempesta sonica di chitarre e tastiere.
Il Reznor sottile ragazzo con i capelli lunghi che barcollava isterico da una parte all’altra del palco sfracellando tastiere è ancora qui, ma è solo nell’ombra appiccicata a terra dell’ ipertrofico e quadrato Trent 2.0, che con passi decisi in tenuta quasi militare camicia e pantaloncini neri, arriva alle 22 e qualcosa dopo Animal Collective (abbastanza inutili) e TV on The Radio (bravi ma fuoriluogo forse). Trent taglia in due il palco piazzandosi avanti sul bordo mentre la folla si comprime, parte a testa bassa con una micidiale “Somewhat Damaged”. Ed è lì che resterà  per tutto il concerto. A prua, a trenta centimetri dal bordo davanti alla sua fedelissima ciurma.

Con Robin Finck di nuovo alle chitarre a sostituire l’ ottimo Aaron North (Icarus Line, Jubilee) la scaletta di questo Wave Goodbye Tour prende ancora di più il gusto del viaggio nel tempo. Quindi ampio spazio a brani ‘classici’ del repertorio ormai decisamente ampio dei NIN con “Downward Spiral” e “The Fragile” in testa senza perdersi per strada pezzi sicuramente più nascosti ai fan recenti come “Burn”, “Wish”, “Gave Up”, “Suck”, la strumentale “Gone Still” e “I’m Afraid of American” composta per e con David Bowie.
Se ci mettiamo poi le storiche “Terrible Lie” e “Head Like” a “Hole”, brani che hanno miodio venti anni suonati (in tutti i sensi) e se li portano davvero una gran bene, e poi sparate nel mezzo “The Becoming”, “Heresy”, “Survivalism”, “The Hand that Feed” nonchè il brano da pogo spaccaossa definitivo ovvero “March of The Pigs”…beh, avrete la misura del perchè la scaletta di questa data romana abbia lasciato tutti con la bava alla bocca.
Come da rituale chiude sempre dolorosa “Hurt” in versione semi-acustica (ma c’è da dire che il sound set di questo tour in generale vede i NIN in una configurazione più rock e meno elettronica del solito) gelando il pubblico in un istantanea finale che difficilmente dimenticheremo negli anni a venire. Trent ringrazia e alza un braccio con un saluto monolitico contraccambiato da migliaia di mani.

Non resta che rigirarci tra le mani questa bella foto direttamente in bianco e nero come i grandi classici, i NIN vanno in pausa, e per qualche anno a venire probabilmente questa serata sarà  tutto quello che ci resterà  di Mr Reznor.

Questa non la rileggo, che già  mi prende male.

Credit Foto: NIN (CC BY-NC-SA 2.0)