Per far piegare l’inossidabile Trent Reznor alle regole dell’industria discografica ci sono voluti gli spietati algoritmi dei servizi di streaming musicale, che per qualche oscuro motivo tendono a dare poca visibilità  a tutti i supporti non classificati come album. E allora ecco la mezz’ora scarsa di “Bad Witch” assurgere al delicato status di nono lavoro in studio a firma Nine Inch Nails; poco importa che in realtà  si tratti semplicemente del capitolo finale dell’annunciatissima trilogia di EP partita nel dicembre 2016 con “Not The Actual Events” e proseguita sette mesi dopo con “Add Violence”.

Se in questi ultimi due la ricerca di soluzioni inedite si era limitata a grattare la superficie del fitto tessuto di suoni ricamato dalle mani esperte di Reznor e del suo sodale Atticus Ross ““ un’accoppiata letteralmente da Oscar, non c’è che dire ““ qui si va decisamente più in profondità , verso territori inesplorati dove aprire una nuova fase nella trentennale carriera dei Nine Inch Nails. Nessuno temi rivoluzioni però, perchè nelle sei tracce di “Bad Witch” ci sono ancora tutte le caratteristiche tipiche del gusto reznoriano: le atmosfere plumbee, le trame elettroniche estremamente dettagliate, le chitarre sature all’inverosimile e le linee di basso roboanti, solo per citarne alcune.

Quello che qui sembra cambiare in maniera netta semmai è l’approccio a questa consolidatissima visione musicale. Reznor non vuole limitarsi semplicemente a rimescolare le carte in tavola: il suo desiderio ““ forse inconscio, forse no, chi può dirlo ““ è sollevarci di peso e scaraventarci in una dimensione alternativa. Uno spazio metafisico – o ancor meglio ultraterreno – dal quale sembra provenire uno dei due strumentali in scaletta, opportunamente intitolato “I’m Not From This World”: uno spaventoso trip a base di dark ambient, pulsazioni sotterranee e rumori di macchinari industriali che riportano alla mente alcuni momenti lontani e poco conosciuti del passato di Reznor (le colonne sonore di “Tetsuo: The Bullet Man” e “Quake”).

E se il nerboruto tuttofare della Pennsylvania, dopo aver fatto visita l’anno scorso alla spettrale Twin Peaks dell’amico David Lynch, fosse rimasto intrappolato per sempre nella Loggia Nera come l’agente speciale Dale Cooper? In “Bad Witch” non mancano gli indizi: nelle voci ultraeffettate e disturbanti di “Ahead Of Ourselves” sembra di ascoltare un Trent Reznor in versione doppelgänger, mentre alcuni passaggi di “Play The Goddamned Part” e “God Break Down The Door” sono avvolti nel jazz fumoso e notturno tanto caro a quel geniaccio di Angelo Badalamenti.

Nello stesso criptico mondo nato dalla fervente immaginazione del regista statunitense abita da decenni un misterioso collega di Cooper, Phillip Jeffries: nell’ultima stagione di “Twin Peaks” appariva sotto le spoglie di un’enorme teiera, ma in tanti ancora ce lo ricordiamo con il volto del compianto David Bowie. Il suo fantasma vaga senza sosta tra le note di questo disco, regalandoci qualche piccolo sussulto in una “Over And Out” interpretata da Reznor in uno stile crooneristico molto simile al suo (e a quello di Scott Walker, una delle maggiori influenze del Duca Bianco) e nella già  citata “God Break Down The Door”, che in poco più di quattro minuti riesce ad attraversare tutto il meglio della produzione bowiana più recente: qui infatti si incontrano a metà  strada la drum and bass di “Earthling” e i sassofoni dall’oltretomba di “Blackstar”, immersi poi in un angosciante incubo a occhi aperti degno di quel capolavoro d’ansia che fu il troppo spesso dimenticato “1.Outside”.

I Nine Inch Nails non suonavano così poco rassicuranti, sporchi e sperimentali da tempo immemore. Coloro che temevano si fossero normalizzati dopo qualche prova piacevolmente innocua (vi ricordate “With Teeth”?) possono tornare a dormire sonni (non) tranquilli: le canzoni di “Bad Witch” non provengono da questo mondo, ma dal lato più oscuro e indecifrabile della mente di uno degli ultimi grandi artisti della nostra triste epoca.