Puntuale come al solito, anche questa volta è arrivato il Woody Allen del 2009.
A quattro anni di distanza da “Melinda e Melinda”, il cineasta americano è tornato finalmente nella sua amata/odiata New York, all’Upper West Side e al Greenwich Village.
Dopo la secchezza narrativa che ha caratterizzato gli anni londinesi, i colori caldi e le suggestioni passionali di Barcellona, il rientro nella città  natale ha dato ad Allen l’occasione per tornare ad una commedia dalle tinte abituali, in cui Larry David (volto sconosciuto in Italia, ma celebre negli Stati Uniti: è uno dei più grandi autori comici della storia della televisione) presta il suo corpo e la sua voce ai pensieri del regista e sceneggiatore, che torna qui a concedersi lunghe divagazioni e ragionamenti sul senso della vita.
Anzi, parla persino al pubblico – come è d’abitudine in molti suoi film – e non manca così di accentuare velleità  pirandelliane che sono state sempre presenti nella sua poetica. Come ad esempio nel gustoso prologo al bar, che è un’altra delle situazioni ricorrenti del suo passato da new yorker.

Woody Allen sta per compiere settantaquattro anni, e i suoi film non possono essere più definiti delle novità : chi è rimasto stupito da “Match Point” probabilmente non ha mai capito fino in fondo la crudeltà  sotterranea alle sue commedie umane, sempre segnate da una vena nera e grottesca.
Del resto, è lo stesso protagonista che nelle prime battute non smette di sottolineare il profondo egoismo e la incancellabile meschinità  del genere umano (Perchè il marxismo è fallito? Perchè è come la religione, si fonda sull’errore madornale che l’uomo possieda un’indole buona…), e come lo stesso Allen ci ha insegnato in quello splendido esercizio di scrittura che è “Melinda e Melinda”, alla fine la differenza tra la tragedia e la commedia sta solo nell’occhio e nel carattere di chi guarda alla vita.
Comunque, da anni ormai Woody Allen non fa altro che ribadire quello che secondo lui è il significato delle cose: in questo caso, si immagina con molta sincerità  come un misantropo ex-professore di fisica che cerca di insegnare ai bambini a giocare a scacchi, non potendo fare altro che insultarli per la loro infantile ingenuità .
L’eroe di “Whatever Works” ha molte delle caratteristiche comuni a tutti i suoi personaggi precedenti: è superbo e solo, è convinto di avere una visione d’insieme che non riesce mai a far coincidere con la pratica. Il suo mondo razionale – la sua sicurezza sulla transitorietà  dei bisogni umani, e del progressivo deterioramento delle relazioni, il destino di ognuno come concatenazione di casi fortuiti, e non come autodeterminazione – è incrinato anche solo dai ricordi che gli suscita la visione di un vecchio film con Fred Astaire.

Evan Rachel Wood ha l’ingenuità  di Mira Sorvino ne La dea dell’amore, fa rivivere il trascinante appeal di Diane Keaton in “Io e Annie”, e come al solito non farà  altro che confermagli che niente nella vita è sicuro, tanto meno l’amore e la fedeltà : nonostante lo sappia in anticipo, David se ne innamora lo stesso (tutti noi abbiamo bisogno di uova, questo ce lo ha sempre detto).
Woody Allen non ha niente da aggiungere al suo mondo: a volte lo osserva con occhio particolarmente pessimista, a volte si apre alla speranza di riuscire a rubacchiare istanti di felicità  al profondo vuoto nero dell’universo.
Il fatto è che ogni sua nuova versione è brillante e godibile: non dura mai troppo a lungo, ed è sostenuta da invenzioni visive sempre meno coinvolgente, ma da una capacità  di dialogo (la scrittura ha solo qualche scivolone verso il grossolano, come il coming out finale) che è sempre piacevole seguire.
In questo, se non vuole bene al mondo, quanto meno dimostra di voler bene al suo pubblico: ogni anno si presenta e fa la sua esibizione, ricordandoci quella che è comunque una lezione preziosa.
C’è da dire che se tutto il suo cinema precedente è stata una lotta tra l’immagine e la parola, è ormai chiaro che a vincere è stata la seconda.