“Match Point” iniziava con una pallina da tennis che oscillava sul bordo della rete. Questione di fortuna, di caso, unici giudici tra la vittoria e la sconfitta, tra il successo e il fallimento, in un mondo sempre meno influenzato dal merito.
“Cassandra’s Dream”, terza produzione inglese di Woody Allen (la prossima sarà  spagnola), riallaccia immediatamente i legami con il suo precedente thriller, non solo per via dell’uggiosa ambientazione londinese, ma anche per il ruolo centrale affidato alla sorte, in un film in cui tutti hanno scommesso qualcosa: Ewan McGregor che vuole puntare soldi su un progetto immobiliare, Colin Farrell che gioca forte a poker e ai cani, e lo zio ““ figura archetipica del film ““ che investe sui suoi due nipoti per salvarsi dalla gogna, dalla rovina e dal carcere.

Non c’è però solo la sorte. Il cinema di Allen ruota da sempre attorno al tema dell’etica, della scelta morale: come in “Match Point”, qui la stilizzazione del bivio è esasperata dalla presenza dell’omicidio come dilemma estremo eppure irrinunciabile. Infatti, nonostante lo stile del cineasta sembri essere arrivato ad una sobrietà  quasi ossessiva, asciutto fino quasi all’aridità , la sensazione resta quella che “Cassandra’s Dream” sia un film troppo studiato per essere pienamente coinvolgente. Il rimorso, o la sua ancora più inquietante assenza, non vengono più affidati a situazioni o atmosfere (la splendida e shakesperiana apparizione in “Match Point”), ma all’esplicita personificazione attraverso i due protagonisti, che segnano una scissione sin troppo scontata: il frivolo e ambizioso Ewan McGregor e il sin troppo sofferto Colin Farrell.

Una divisione scolastica dei ruoli che suona più come una piccola variazione sul tema, piuttosto che in un suo robusto e necessario aggiornamento: Allen, almeno in questo caso, pare aver puntato su una scommessa sicura, rinunciando persino alla solita musica di repertorio e affidandosi ad un classica e solida colonna sonora di Philip Glass, che ha sfoderato un tema in sintonia con le tinte noir della vicenda. Proprio queste suggestioni da cinema classico (non è la prima volta che Allen vi fa riferimento: basti pensare all’affettuosa citazione de “La fiamma del peccato” in “Misterioso omicidio a Manhattan”) sono tra le cose migliori: in particolar modo la prima apparizione dell’esordiente Hayley Atwell, che si presenta vista dagli occhi di McGregor come una tipica femme fatale, in una delle poche soggettive di un film sempre costruito come una cinica e disincantata analisi della meschinità  umana, senza alcuna traccia di affezione.

“Sogni e delitti” resta però sempre sospeso tra il consapevole esercizio di stile (la panoramica che devia su una siepe, lasciando fuoricampo il momento culminante del film), e il deja vu di una tipica ossessione alleniana e, inevitabilmente, non riesce a fare breccia.