E Mr E infila di nuovo la palla nel sette.
Le metafore calcistiche, se decidesse il sottoscritto, andrebbero abolite dalla musica e dalla lingua italiana, ma che fare quando questo sport e tutta la sua carica quasi destrutturalizzante sono talmente parte della nostra cultura da meritarsi più attenzione di qualsiasi altra cosa? Allora continuiamo così. Il falso conformismo tanto per rendere più originale una recensione ci sta no?
La carriera di Mark Oliver Everett è priva di autoreti, nè falli ne sgambetti al suo personaggio, sempre a rincorrere il fantasma dell’originalità e del ‘sapersi rinnovare’ che tanto sfugge alla maggior parte degli artisti che si vogliono fregiare di una lunga permanenza nello star system. Certo, siamo a livelli leggermente più bassi, ma Everett nel rock conta davvero.
Ce lo dimostra anche con questo disco, il più cantautorale mai sfornato, che inizia subito con la sofferente e struggente melodia di “The Beginning”, prima di sferrare l’asso felice “Gone Man”, una ballatina dai toni pop e fortemente votata alle atmosfere danzerecce del rock’n’roll vecchio stampo, antefatto di un disco interamente consacrato alla tristezza e alla malinconia. I toni più gioiosi, quelli di un Everett quasi gaudente con la sua chitarra acustica, arrivano nella bobdylaniana “Mansions of Los Feliz” e nella più indie-moderna “Unhinged”, che di certo non portano il buonumore. Dalla traccia di collegamento “High and Lonesome”, fatta di rumori di temporale e passi, allo strazio piano-voce di chiari richiami beatlesiani “I Need a Mother”, passando per la roboante “On My Feet” e i suoi toni sommessi vagamente pinkfloydiani, sempre per citare grossi nomi, si passano in rassegna tutte le fasi di una tristezza che per l’appunto si rifà alla morte dell’artista stesso. Il concetto alla base del disco è infatti questo, e titoli come “Paradise Blues” (il rockettone in stile Bruce Springsteen del disco, immancabile) e quello stesso del disco (con anche una title-track da sveno assoluto) non si impegnano più di tanto a nasconderlo. I testi quasi da vecchierello assopito in attesa di un sonno che forse sarà l’ultimo si ripercuotono sull’umore dell’ascoltatore come un uragano di lacrime, i concetti sono quelli della morte, dell’assenza di movimento e di vita (siamo sempre lì…), dell’andarsene via, della fine di tutto. Un disco da NON ascoltare se vi ha appena lasciati la ragazza, se vi è morto il gatto, se avete scoperto di avere una malattia incurabile. Cinismo? No, un semplice consiglio.
Poche battute sul duemiladodici per favore, anche i musicisti ne avranno le scatole piene, come tutti noi. “End Times” è un gran disco, leggemente inferiore a “Hombre Lobo” e ad altre perle del buon Mr E, ma di certo lascerà il segno in questo già fortunato duemiladieci, intimistico quanto non mai laddove la musica triste segna il passo della crisi, della cassa integrazione, dei licenziamenti di massa. Musica per Termini Imerese. Speriamo non sia terreno fertile per una nuova ondata di falsi emo disgraziati alla ricerca di ragazzine e denaro facile, l’importante è avere nel cassetto qualche disco di Mark Everett da inserire nello stereo quando avete voglia di bella musica.
Fischio finale.
2. Gone Man
3. In My Younger Days
4. Mansions of Los Feliz
5. A Line In The Dirt
6. End Times
7. Apple Trees
8. Paradise Blues
9. Nowadays
10. Unhinged
11. High and Lonesome
12. I Need A Mother
13. Little Bird
14. On My Feet