Si fa presto a lamentarsi affermando che nelle città  di provincia non c’è mai nulla da fare, che gli esercizi commerciali di una delle vie principali sono tutti in mano ai cinesi (è il libero mercato, bellezza ““ chi ha il cash compra anche se ha gli occhi a mandorla e la pettinatura da omino Lego), che le Forze dell’Ordine chiudono i locali dove i giovani vanno a divertirsi bevendo un cocktail schifoso dietro l’altro oppure che gli anziani vanno a letto presto perchè alle otto del mattino devono giocarsi la pensione al Gratta & Vinci, si fa presto a lamentarsi a voce alta e/o scrivendo in rete che certi festival musicali hanno una proposta troppo di nicchia per essere vera oppure dovrebbero essere organizzati (o meglio, già  che ci siamo dovrebbero auto-organizzarsi) in location più ampie ed accessibili, si fa presto a lamentarsi a casaccio ma finisce sempre che ci si distrae troppo e si finisce per perdere le cose migliori dell’estate. Tipo i National che hanno suonato a Ferrara nell’ambito del festival Ferrara Sotto Le Stelle ed hanno dato vita ad una esibizione che probabilmente i presenti ricorderanno per parecchio tempo, uno spettacolo toccante sia dal punto di vista fisico che emotivo (in pratica ne esci svuotato ma felice di esserci stato, e non è poco. La musica deve anche saperti svuotare e talvolta farti star male).

Poi per carità  i gusti son gusti e comunque i gusti altrui non si discutono perchè ognuno è libero di fare ciò che vuole (anche ascoltare i Pooh per intenderci), però non si può di certo dire che i National negli ultimi anni non siano stati una realtà  capace di dire qualcosa di molto bello e di farlo in un modo così rispettoso dei maestri (in primis Joy Division, Nick Cave e l’ultimo, immenso Johnny Cash) eppure così personale e peculiare. Li senti e capisci subito che son loro, e probabilmente l’ha capito anche Barack Obama che è un loro fan ed ha usato “Fake Empire” durante la campagna elettorale che l’ha poi portato al trionfo e alla Casa Bianca.

Ma torniamo a Ferrara e al concerto, che è quello che conta davvero. Preceduti dai Beirut – una cosa sulla carta molto pretenziosa (del tipo Patrick Wolf che scrive la colonna sonora per un film western di Emir Kusturica oppure a scelta un giovane Morrissey che frequenta da fuorisede il DAMS a Bologna e si lascia travolgere dal clima bohemièn che ivi si respira, con tanto di fisarmonica, ukulele, fiati, xilofono e chi più ne ha più ne metta) eppure terribilmente pop ed efficace o quantomeno coinvolgente anche per gente come il sottoscritto che fondamentalmente un certo tipo di suoni etno-balcanici non li mastica proprio, una cosa che era alla prima assoluta su un palco italiano e a questo punto spero torni presto a conquistarmi canzone dopo canzone facendomi perfino ballare ““ hanno iniziato ed è stata subito una tempesta di emozioni e sensazioni. Novanta minuti più recupero nei quali i National hanno saccheggiato il loro repertorio, privilegiando ovviamente l’ultimo, ottimo “High Violet” ma recuperando per la gioia delle ghiandole lacrimali dei fan più incalliti anche canzoni tratte da “Boxer” ed “Alligator”.

La particolarissima voce di Matt Berninger è in grado di entrarti dentro e scavarti nell’anima mettendo a nudo pensieri, parole, opere, omissioni et altre cose nascoste che di solito ti vergogni ad esternare, il resto della band lo sorregge alla perfezione in questa nobile impresa, le atmosfere sono crepuscolari & sognanti e quando il tutto si conclude con una tiratissima “Mr. November” ed inedita versione acustica di “Vanderlyle Crybaby Geeks” cantata da un Matt Berninger proiettato fisicamente e spiritualmente in mezzo al pubblico una lacrima scende anche a me che non piango almeno dall’ultima volta in cui ho visto i Notwist dal vivo. I National sono pronti per il mainstream, son partiti dal nulla e conquisteranno il mondo. Se non ce la fanno loro chi ce la può fare?

Foto Thanx to Luca Gavagna

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