Mettere in discussione Ian Svenonius significherebbe non rendere giustizia ad una fetta importante di storia della musica bordeline di Washington Dc.
Non che si tratti di Lesa Maestà , più che altro è ricerca di una critica oggettiva serena e motivata.
Per chi non ha mai visto una sua trasmissione su Vice Tv, di per sè acuta ed ironica, o ascoltato dischi di Nation Of Ulysses e Make Up addentrandosi così nel suo sterminato background di ricercatore di buone vibrazioni, sarà  difficile accostarsi all’inquieta poetica sonora del soggettone.

Fatta di irruenza spesso traslata in attitudini Lo-Fi ultra sgangherate, di oltranzismo Rock And Roll duro e puro, di roots impastate secondo la sua visione di artista cristallizzato nei mid sixties ed oltremodo illuminato.
“Music’s Not For Everyone”, va da sè, non è un disco per tutti se non se ne colgono l’ironia tagliente e la giocosità  in primis, ed è un tirassegno formidabile dove scagliare ogni ragionevole dubbio sia sulla forma canzone sia sui contenuti delle medesime.
Semplicemente per il sottoscritto odora ancora di retaggi del progetto Make Up soprattutto, dove la bizzarria pseudo live dei suddetti muta, qua, in ritmiche indolenti ed articolate, nonostante le intenzioni bizzose ed in odore di rissa di Ian, svelate proprio nel brano che dà  il nome all’album.

Non è un capolavoro davanti a cui prostrarsi e te lo dico subito: è buono per il completist, costoso per il novizio che vuole avvicinarsi a questo immaginario che guarda al passato con velleità  di futuro prossimo.
Ma non ce n’è se ti ci accosti indifeso in una giornata di primavera.
Ed il suo Funk deviato, la sua Soulness, la sua Blackness riescono ad appiccicarsi ai vestiti leggeri tuffandosi nel primo velo di sudore.
Ci vorrebbe una Mustang Cabrio, forse, per comprendere le direttrici di 14 brani malati e vaticinanti, che da un lato ti indicano il Sole e dall’altro ti spingono nell’Exploitation metropolitana nuda e cruda. Fatta di locali puzzolenti, gente infoiata di droghe mescaline in saldo e owners che ti cacciano a fine set per cazzeggiare coi soldi che non vedrai mai.
E che altro potresti fare allora, memore di “‘sti scazzi, se non dar vita ad un progetto come Chain And The Gang, ossia volgere il nichilismo Punk verso i pozzi asciutti del Blues, meticciare il tutto con il Garage più minimale e sputarci dentro qualche zozzissima percussione cajun giusto per il Voodoo e qualche “non morto” che vaga qua e là  ascoltando dischi della Motown?

“Livin’Rough” l’incubo da aperitivo perfetto, “Detroit” in doppia version, il pezzo manifesto omonimo con strascichi alla Velvet Underground, i Beatles in Lsd di “Can’t Get Away”, la perversione zozza e tastierata di “(I’ve Got) Privilege”, sono lì a certificare la rivoluzione minimalista in doppiopetto gessato.
E ci piace a prescindere.