Scrivere di musica non è una scienza esatta.
Ho molto rispetto per chi illustra le proprietà  di un assolo, per chi scinde un disco in accordi e bassi e si tiene alla larga dai drammi. La recensione più toccante di sempre”“ “Astral Weeks” di Van Morrison firmata da Lester Bangs““ nasce però da altre premesse. è un pezzo di giornalismo musicale a cui ho pensato molto in questi giorni, perchè è scientificamente esatto dire che certi dischi sono capolavori, ma questo lo capiamo davvero solo quando ci troviamo in condizioni di miseria. Di opere con qualcosa da dire è pieno il mondo, ma sono pochi i dischi che ti confortano nelle corsie degli ospedali e nei saluti sul pianerottolo con le scatole in mano. Il terzo album di Sharon Van Etten appartiene a quest’ultima categoria: potrei dire che è arrangiato benissimo, che pulsa di collaborazioni importanti (i fratelli Dessner, Beirut), che la cantante originaria del New Jersey adotta una poetica meno asfittica rispetto ai precedenti, e poi mi chiederei a cosa serve dirlo.

Invece ho pensato a tutte le volte che questa cantante ha scritto un pezzo per rimediare alla propria infelicità , e al potere di chi consola gli altri mentre vuole solo a confortare se stesso. Che è il motivo per cui Van Etten fa dischi, e Lester Bangs esibisce il suo crollo esistenziale quando parla di Van Morrison. C’erano ragazze, una volta, che si commuovevano quando ascoltavano “That I would be good” di Alanis Morissette, ragazze “‘tenere e scure e in ritardo per l’amore’ che sono cresciute e hanno scoperto Cat Power e hanno levigato la propria tristezza, mentre Jen Lindley usciva di scena e al suo posto arrivava un’attrice indipendente sgranata, e intanto il mondo attorno si trasformava, e con questo l’idea che quelle bambine una volta avevano di sè.

L’inadeguatezza è un tema noioso, l’amore non contraccambiato altrettanto, una donna che imbraccia una chitarra lamentosa per pretendere delle scuse non smuove e non commuove, eppure “Tramp” si impone su tutto questo con la stessa nervosa leggerezza di una “City Middle”, perchè se il monopolio delle relazioni fallimentari e del non-sono-all’altezza ultimamente è stato esercitato da Matt Berninger e da Justin Vernon be’, adesso c’è una cantautrice che può combattere ad armi pari.
Ho sempre creduto nel valore delle corrispondenze, per questo non parlerò degli assoli o dei bassi o degli accordi di “Tramp”, ma dirò invece che Sharon Van Etten suona come i Twilight Singers in “Serpents”, come Pj Harvey in “Warsaw” e come Zack Condon in “Leonard”; dirò che Sharon Van Etten rende giustizia all’aggettivo haunting perchè la sua è una musica fondamentalmente in dialogo con i fantasmi, che “Give Out” ha una qualità  spettrale, ossessiva e circolare, e che per colpa sua certe ragazze quando ascoltano “Joke or Lie” si rendono conto che anche se il mondo si è trasformato loro sono sempre al punto di partenza e che capolavoro qui non è la parola esatta, non è scientificamente adatta, ma è la prima che viene in mente.

“Tramp” è come un attacco di epistassi sotto il sole, perchè se fuori ci sono tutti i segnali del cambio di stagione, il corpo per qualche ragione si oppone, e allora cosa resta, un amore che non ti ha cambiato la vita (l’ex fidanzato di Sharon è finito in carcere per cause non precisate dopo averle detto ripetutamente che era una fallita, nonostante il “‘volevo morire per te, le scene drammatiche, le bugie’) la malinconia che ti fa consumare certi dischi, un giornalista musicale che nel punto più basso della sua esistenza non si è comunque lasciato andare e certe ragazze che ignorano ancora il momento in cui sono state fregate. Nella delicatezza e nella misera Sharon Van Etten è con noi. E credetemi, per una volta fa la davvero la differenza.

Credit Foto: Ryan Pfluger