Sharon Van Etten suona il piano con lo smalto scheggiato, attacca post-it motivazionali sul frigorifero (Expressing who you are is taking action, Don’t take anything personally), ha l’espressione muta di una cassiera stanca in un drugstore di provincia, e le vuoi bene. Con “Tramp” (2012) si guadagnava un nome, una menzione nelle conversazioni di molti, la nostra gratitudine. Lì ci raccontava di un uomo che “si divertiva a succhiarle i sogni” e prometteva che si sarebbe addormentata al fianco di qualcun altro. Voce e chitarra, nuda, essenziale, non aveva(mo) bisogno d’altro. Ora è al suo quarto album, auto-prodotto (con il supporto di Stewart Lerman), si emancipa dal protettorato-garanzia di Aaron Dressner dei National, collabora con Torres, i War on Drugs ““ sappiamo di cosa stiamo parlando, sappiamo dove collocarla. Lo intitola “Are We There”, ma senza punto interrogativo perchè questa è una transizione, sta accadendo ora, mentre vi scrivo, mentre leggete, mentre ascoltate l’album, e il finale è ancora aperto. Questa volta, è seduta sotto il porticato, cerca una via d’uscita.

Dire “opera di maturazione” è terribilmente noioso, parlare di “suoni più stratificati e ampi, maggiore complessità ” significa tutto e niente. La musica di Sharon Van Etten è una questione sottocutanea; quando l’album si apre con “Afraid of Nothing”, la consapevolezza di essere di fronte a qualcosa di Veramente Grande è immediata, e allora chissenefrega dei violini, lo sai e basta che si tratterà  di un album maestoso. Quando in “Your Love is Killing Me” canta You love as you torture me e la voce si protrae in note di una durata dolorosa, lo vedi da vicino l’abisso di quelle relazioni che non riescono a finire, in cui ci si ama male, ma senza poterne fare a meno. E allora chissenefrega dell’organo e delle percussioni. Lo sai e basta che si tratta di un album maestoso.

Poi ci sono i cambiamenti climatici, le zone franche dove riprendere fiato. Vedi allora “Tarifa” leggera come lo sono solo i ricordi ““ una vacanza in Spagna, abbiamo pensato di essere felici, I could taste your mouth, Slow it was 7, I wish it was 7 all night ““ e in chiusura “Every Time the Sun Comes Up”, andrà  tutto bene, sembra dire, andrà  bene comunque.

Certo, leggere i titoli di “Are We There” è a tratti esasperante: “I Love You But I’m Lost”, “Nothing We’ll Change”, “Your Love is Killing Me”, “Break Me”. è tutto lì, banale com’è banale ferire e farsi ferire, già  detto e già  sentito perchè non esiste innovazione nel linguaggio d’amore. Quello che non diciamo ad alta voce, quello che possibilmente non diciamo affatto (l’incubo dell’aggettivo “patetico”). Ma è proprio questo il valore di “Are We There”: l’onestà  esasperata di chiedere Spezzami le gambe perchè io non possa venire da te, tagliami la lingua perchè io non ti parli, la scelta di non censurare il lamento. L’affermazione del diritto a essere drammatici, persino melodrammatici. Volete usare la parola “straziante”? Va bene così.

Una volta ho letto da qualche parte di un vegetale acquatico, l’oloturia, che rigetta le proprie viscere all’esterno come meccanismo di difesa nel momento di pericolo, rimane svuotato e inerte, nel paradosso suicida di mettere comunque a rischio la propria sopravvivenza per sottrarsi all’attacco. La scrittura musicale di Sharon Van Etten mi sembra qualcosa di simile, esporsi completamente ““ eccole le viscere, eccolo il sangue, you’ve tasted all my pain ““ ma solo per salvarsi.

Are We There
[ Jagjaguwar – 2014]
Genere: indie-rock
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