La strada verso San Siro è costellata per il sottoscritto da un esame al pomeriggio e dal rilascio a casa del pachidermico dizionario monolingue di inglese: gli orari devono incastrarsi alla perfezione col rischio che il rituale della seduta sul seggiolino, della birra da sorseggiare con avidità  e dell’osservazione di tizi pittoreschi nelle vicinanze salti. Per fortuna mi presento allo stadio con congruo anticipo e ho l’opportunità  di ammirare una famigliola al completo (mamma papà  e figlioletto tenerissimo sui cinque o sei anni con la bandana del Boss in bella mostra sulla fronte) accorsa per assistere a uno degli appuntamenti live dell’anno.

Bruce Springsteen arriva in treno a Milano, e la Stazione Centrale è in subbuglio.
Chissà  come dev’essere, essere Bruce Springsteen. Mobilitare un capoluogo di regione e provincia annessa, richiamare parsone di ogni età  e ceto sociale, facendo sì che si mescolino avvocati, giudici, professori e disoccupati che avranno messo da parte i soldi per esserci. Perchè BISOGNA esserci. Il live di Springsteen (e della E Street Band) è qualcosa che tutti dovrebbero assaggiare, gustare almeno una volta nella vita. Maratone di tre ore e passa (oggi saranno tre e mezza) in cui la percezione del tempo pressochè si annulla, in cui si stabilisce un rapporto quasi fisico con il proprio eroe.

Chissà  come devono essersi sentiti quei fortunati che dopo una giornata intera (c’era gente ai cancelli sin dalle 6.30 del mattino) ma con la conquista delle transenne sotto il palco, durante la coda di “Dancing In The Dark” sono stati letteralmente sollevati da Bruce e portati sul palco a cantare, ballare e SUONARE una delle sue chitarre.
Ho pianto, e non mi vergogno a dirlo.
Chissà  come si è svolta la giornata di quella bimba di sette anni al massimo presa in braccio da Bruce e che ha cantato (anche con buona intonazione) il ritornello di “Waitin’ On A Sunny Day”. Chissà  se per essere lì davanti ha aspettato come tutti gli altri dal primo mattino, chissà  se ha saltato la scuola (il 3 giugno le scuole sono ancora aperte? Non ricordo”…). La sua voce da cartone animato risuona dapprima nel silenzio e poi nel giubilo di San Siro, i suoi occhi son pieni di stupore a trovarsi davanti migliaia di facce e di occhi puntati su di lei.
E io piango di nuovo.

La Scala del Calcio trema sotto le bordate di basso che segnalano l’entrata in scena dell’ensemble al seguito di un sessantaquattrenne in forma che neanche Hugh Hefner, al cui ingresso il boato è totale e raggelante. Nessuna pausa tra un pezzo e l’altro: si susseguono nell’euforia e nel singalong “Land Of Hope And Dreams”, “My Love Will Not Let You Down” e “Out In The Street”.
Chissà  come devono essersi sentiti, a quel punto, coloro che si erano armati di cartoncini e pennarello per richiedere al Boss l’esecuzione di alcuni pezzi, quando lui ha preso i suddetti cartoncini e quelle richieste (“American Land”, Loose Ends” e “Long Tell Sally”, quest’ultima cover di Little Richard) le ha davvero soddisfatte.
Dopo “Wrecking Ball” e “Death To My Hometown” arriva l’unica (purtroppo) canzone di Nebraska, per chi scrive l’album più bello del Boss, ma è un brivido che si protrae per 6 minuti in mezzo ai quali San Siro viene gentilmente zittito da Springsteen in persona. Stesso raccoglimento, stessa devozione che fa da contorno a “The River”. Stesso raccoglimento, stessa devozione, stesso folle ruggito che divampano al risuonare delle seguenti parole: “La prima volta che suonai in Italia fu proprio qui a San Siro nel 1985, per il tour di Born In The U.S.A., e per festeggiare questa sera eseguiremo tutte le canzoni di quell’album”. Cori che sottolineano ogni singolo riff, ogni singolo motivetto, dalla titletrack fino a “My Hometown”.
Due ore di live, due ore sul palco senza interruzioni, ma ce n’è ancora. Tocca a “Shakled And Drawn” con tanto di coro gospel, “Waitin’ On A Sunny Day”, “The Rising”, “Badlands” e “Hungry Heart”. Springsteen si avvicina per l’ennesima volta alle prime file, stringe mani, dispensa sorrisi, interagisce, si diverte sul serio, si commuove sul serio.

Quello che nella setlist a fondo pagina trovate come encore in realtà  encore non è, perchè passano solo cinque secondi ad esagerare fra il buio del palco e il riflettore acceso su Bruce che intona “This Land Is Your Land”. è l’introduzione a “We Are Alive”: gli schermi dietro e ai lati dello stage proiettano immagini del compianto Clarence Clemons (dal canto suo il figlio Jake, anche lui sassofonista, è già  una delle colonne della E Street Band). La commozione è di nuovo dietro l’angolo, e deflagra definitivamente con quello che probabilmente è il vero inno springsteeniano, “Born To Run”.
San Siro è illuminato a giorno dai riflettori, quasi come a voler dire “ragazzi, stiamo per salutarci”.
Chissà  allora se tutti gli arrivederci fossero euforici e festosi come, che so, delle “Twist and Shout” e delle “Shout” suonate e ballate sfrenatamente ad oltranza per un totale di quasi venti minuti. è davvero finita.
O forse no. Gli arrivederci infatti nel 90% dei casi sono malinconici, ed ecco che Bruce, dopo l’uscita di scena dei suoi fidi scudieri, imbraccia la chitarra acustica e si accolla la sua armonica per “one more” soltanto: “Thunder Road”.

Credo a Bruce Springsteen quando dice che ama noi lì a San Siro, che ama Milano, che ama l’Italia. Lo avrà  detto anche a Napoli così come ad Oslo e a Monaco di Baviera, probabilmente, ma io gli credo. Glielo si legge negli occhi lucidi che è vero. Glielo si legge su quel sorriso ogni volta sorpreso che è vero. è un uomo letteralmente messo al mondo per stare sul palco, per far felice la sua gente per qualche ora. Per far di tutto per sembrare, e per essere, uno al di qua del palco.

Il ritorno a casa in metro è surreale. Vagoni stracolmi di persone in religioso silenzio, forse perchè stremate, più verosimilmente per riflettere e custodire il ricordo, rimuginare e crogiolarsi nel ricordo dell’evento che aspettavano da mesi, forse da anni, forse da una vita intera. (Io ripenso al tizio pittoresco ““ alla fine l’ho trovato, anzi è lui che ha trovato me ““ sulla cinquantina e dal grugno simile a quello di Maroni, che giusto accanto a me si dimenava schiaffeggiandosi troppo violentemente le mani e accarezzandole subito dopo, cosa che mi ha costretto a ridergli sostanzialmente in faccia.) Ci sarà  modo poi di chiamare i propri amici, la propria famiglia, per dilungarsi in sperticati ed entusiasti elogi della leggenda Springsteen, e per portarli (dovesse anche essere “di peso”) al prossimo suo passaggio da queste parti.

Setlist:

LAND OF HOPE AND DREAMS
MY LOVE WILL NOT LET YOU DOWN
OUT IN THE STREET
AMERICAN LAND (RICHIESTA DAL PUBBLICO)
LONG TELL SALLY (LITTLE RICHARD COVER) (RICHIESTA DAL PUBBLICO)
LOOSE ENDS (RICHIESTA DAL PUBBLICO)
WRECKING BALL
DEATH TO MY HOMETOWN
ATLANTIC CITY
THE RIVER
BORN IN THE U.S.A.
COVER ME
DARLINGTON COUNTRY
WORKING ON THE HIGHWAY
DOWNBOUND TRAIN
I’M ON FIRE
NO SURRENDER
BOBBY JEAN
I’M GOIN’ DOWN
GLORY DAYS
DANCING IN THE DARK
MY HOMETOWN
SHAKLED AND DRAWN
WAITIN’ ON A SUNNY DAY
THE RISING
BADLANDS
HUNGRY HEART

— encore —

WE ARE ALIVE (CON INTRO DI “‘THIS LAND IS YOUR LAND’)
BORN TO RUN
TENTH AVENUE FREEZE-OUT
TWIST AND SHOUT (THE TOP NOTES COVER)
SHOUT (THE ISLEY BROTHERS COVER)

encore 2

THUNDER ROAD (SOLO ACOUSTIC)