I Mogwai sono esploratori musicali che ormai da anni si muovono agilmente tra i confini e le mille diramazioni di quel vasto universo chiamato post rock, termine che loro odiano ma che definisce un genere a cui volente o nolente hanno dato un gran contributo. Molto è stato detto e scritto per elogiare questi ragazzi scozzesi, lavoratori instancabili che quando non sono in tour si rinchiudono in studio per dar forma a quelle cavalcate a volte incalzanti a volte sognanti che compongono gli album e l’infinita serie di EP con cui non si stancano mai di saziare l’appetito dei fan.

Artisti veri, a tutto tondo, che amano le sfide e mettersi alla prova componendo colonne sonore (dal documentario “Zidane: A 21st Century Portrait” al recente, commovente commento sonoro alla serie tv “Les Revenants” purtroppo ancora inedita in Italia). Quelli dei Mogwai sono dischi dal sound sempre incredibilmente curato e dal packaging stellare, croce e delizia dei collezionisti più accaniti che non vedono l’ora di mettere le mani sulle famigerate e ricchissime deluxe edition. “Rave Tapes”, successore di “Hardcore Will Never Die But You Will”, li vede tornare a collaborare con l’amico e storico produttore Paul Savage, figura fondamentale nella loro evoluzione musicale. E’ un album che, e capita spesso con i lavori dei quintetto di Glasgow, trasporta in un’altra dimensione come pochi altri sanno fare. E allora non resta che lasciarsi andare e seguire la corrente, perchè opporre resistenza è inutile.

Si potrebbe parlare per ore dei cambi di ritmo ipnotici di “Heard About You Last Night”, avvio soft ma non spiacevole, della compattezza di “Master Card”, del minimalismo tagliente e combattivo di “Simon Ferocious”, di una “Remurdered” carnale come i loro live, del vocoder che riveste “The Lord Is Out Of Control” (brano che all’inizio si chiamava “Church” perchè secondo il tastierista e genietto del computer Barry Burns sembrava un inno). E ancora delle chitarre di “Hexon Bogon” che in tanti vorrebbero imitare, di quel delizioso gioellino armonico che è “No Medicine For Regret”e del meraviglioso crescendo su cui si inerpica “Deesh” (brani che chissà  quante serie tv faranno la fila per avere). Ma “Rave Tapes” è un album che va goduto fino in fondo, più che discusso. E allora facciamola breve dicendo solo che è un’emozione continua che scorre senza grandi sorprese nè esplosioni cosmiche. Sospeso tra l’immancabile spoken word (“Repelish”, affidato a un rapper di Chicago amico della band, ispirato da una trasmissione radiofonica americana scovata da Geoff Barrow dei Portishead) e una “Blues Hour” da brivido figlia di Eno e Peter Gabriel, che avrebbe potuto benissimo accompagnare i titoli di coda di “Les Revenants” (chissà  se succederà  nella seconda stagione), delicata e intensa come in passato lo erano state “Friend Of The Night” e “Take Me Somewhere Nice”.

Passano i decenni, però la qualità  dei Mogwai resta. “Rave Tapes” è un esercizio di stile che preferisce la penombra alla luce del mezzogiorno, fatto di sfumature, dettagli, cambiamenti minimi ma significativi che rendono le canzoni a volte simili al passato ma mai completamente uguali a sè stesse. Come in un paesaggio caro e familiare, come in un quadro di Bosch che guarderesti per ore, ci vuole tempo per cogliere e apprezzare a dovere le differenze, i particolari. Tempo ben speso. Quattro stelle e mezzo di cuore, di cervello, di pancia.

Photo Credit: Anthony Crook