Ventidue anni di carriera, dodici dischi studio. Bottino niente male. Dischi di solito scomodi, che non la mandano a dire, provocatori, con testi che non lasciano intendere, bensì piùttosto schietti. La faccia tosta non è mai mancata al trio gallese. E quindi dopo una virata acustica avuta con il precedente “Rewind the Film” i Manic Street Preachers mettono di nuovo le chitarre negli amplificatori, vanno nel cuore pulsante di un Europa che non va, in Germania, “Europa Geht Durch Mich” un brano apparentemente romantico ma che nell’oscurità  delle strofe si trasforma in qualcosa di più pessimistico, attualista e rivolto essenzialmente allo strapotere germanico nel parlamento europeo.

Un viaggio, quello fatto durante la loro precedente tournee, la fonte d’ispirazione e gran parte dei pezzi registrati a Berlino con forti, fortissimi richiami all’art rock, al kraut, un po’ stomp un po’ Kraftwerk con tanto di Talking Heads e il Bowie Berlinese. La fonte dell’ elettronica industrial e spigolosa che usciva negli anni in cui l’idea dell’Unità  Europea diventava la strada scelta dai nostri amatissimi rappresentanti politici.

“Futurology” è un disco che non presenta singoloni, eccezione forse per “Walk me to the Bridge”ma è un concept che si divincola tra massime sociali e scariche di elettricità  positiva. L’ascolto suscita svariate emozioni: ansia, angoscia, voglia di rivalsa, rivoluzioni utopiche, fretta, stress, furia. E’ la nostra società  quella che s’incontra nei 13 pezzi che compongono l’album. Esortazioni, spirto guerriero “Let’s go to war” in stile “The Wall”. “Futurology” è una grande città  dell’Europa, una città  plastica, asfissiante, con la natura che non riesce più ad affermarsi e che perde ogni giorno a colpi di cemento, con i sentimenti sempre più sterili e sempre meno vivi e vivibili. Volendo c’è anche il tempo di respirare e magari rimpiangere il tempo andato con la ballad “Beetwen the Clock and the Bed”. Oltre alle chitarre sono i synth a dettare legge nel disco. La tracklist prosegue fino, appunto, a “Mayakovsky”, altro personaggio non casuale, altro brano strumentale, l’altro era “Dreaming the City”, giusto perchè non ci siamo fatti mancare niente (Nel sito troverete un sampler di presentazione di ogni brano corredato di frase o massima o aforisma che aiuta meglio alla comprensione dell’album).

Disco un po’ pretenzioso mi verrebbe da dire. Si va così di fretta che non c’è tempo di riflettere, protestare, ragionare, obiettare, pensare. La schiavitù verso la velocità  del tempo e delle cose è più forte di tutto e di tutti. Quello che stupisce nei MSP è la voglia incessante di scrivere, di mettersi in gioco, di esplorare, di sprofondare, di provare a scardinare una folla cieca che non vuole riacquistare la vista e la parola per dire ai signoroni potenti che le cose nonostante tutti gli sforzi non vanno bene.