Una delle variabili più importanti da prendere in considerazione nel giudicare un disco è quella del “quando”. Ci sono momenti nella giornata in cui anche le cose più belle ci sfuggono, sfiorandoci distrattamente mentre il fulcro delle nostre attenzioni è altrove. La giusta predisposizione all’ascolto dovrebbe essere quasi un rito sacrale da consumare con geometrica precisione, ma il tempo e le cose che ruotano attorno alle nostre esistenze non sono così scientifici e magnanimi. Ho messo su diverse volte il nuovo disco degli …A Toys Orchestra traendone la conclusione che si trattasse del solito buon lavoro pieno di richiami e nulla più. Ad un certo punto la prospettiva è quasi radicalmente cambiata, proprio quando stavo per mettere nero su bianco le mie impressioni. Gli ho dato uno spicchio di tempo in più, ulteriori passaggi nel lettore e ne ho colto l’intera bellezza.

“Butterfly Effect” ci racconta di come in effetti sia il caos a governare le nostre vite per il fatto che non possiamo controllare le conseguenze delle nostre scelte, anche quelle più banali. Perchè tutto, anche il semplice ascoltare le note di questo disco, può alterare inesorabilmente il corso delle cose. Una prospettiva interessante seppur non del tutto originale, trasfigurata in una formula che, senza esagerare, non abbiamo il timore di definire adatta anche le platee internazionali più mainstream. E’ difficile esprimere in parole la peculiarità  di un lavoro fatto di canzoni pop rock di stampo britannico. Affidarsi per la produzione alle mani di Jeremy Glover, già  al lavoro con Liars, Crystal Castle, IAMX, è stata una scelta più che vincente, capace di alzare ulteriormente l’asticella di una formula che, di disco in disco, si è fatta sempre più matura e compiuta.

In scaletta ci sono almeno tre o quattro brani che band come Coldplay, Muse o anche gli ultimi Kasabian, non saranno mai più capaci di scrivere: “My Heroes Are All Dead” è una ballata elettrorock semplicemente perfetta, mentre “Wake Me Up” si avvicina moltissimo a certe soluzioni degli Arcade Fire di “The suburbs”. Non c’è una nota sbagliata nell’insieme, fra passaggi più complessi e momenti pop tout court in cui si muove anche il fondoschiena. Una perfezione formale e una pienezza di contenuti che corrono di pari passo. Vengono da Agropoli, provincia di Salerno, ed hanno dato alle stampe il miglior disco pop rock in inglese di questo 2014. Il passo per diventare una grande band anche dal punto di vista della notorietà  potrebbe, a questo punto, non essere così lungo.