Su Joanna Newsom potrei dire tante cose un po’ antipatiche, tipo che la sua diatriba contro Spotify e la musica distribuita in streaming è semplicemente assurda.
Oppure che dovrebbe un attimo curare la grafica delle cover perchè fin’ora ne ha azzeccata solo una e questa, in particolare, sembra il banner di un forum di fan-fiction sugli elfi, o un’immagine presa da un coupon del padiglione austriaco all’Expo.

Ma, stringendo, non sono questi i dettagli che incidono quando ci si approccia alla musica, sono solo fiocchettini che abbelliscono (o imbruttiscono) un pacco regalo.

Parlare di “Divers” è abbastanza semplice, perchè Joanna Newsom, ha uno stile veramente unico e facilmente distinguibile, sia nella composizioni sia nel canto.
Rimango fissi elementi come l’arpa e la voce fanciullesca, tratti caratteristici che si sono ripetuti in tutti si suoi album.
Quindi, insomma, il punto di partenza rimane sempre quello ed è inutile ripetersi.
C’è un forte punto di rottura però che caratterizza questo LP: l’artista californiana infatti ha abbandonato le lunghe derive folk dei suoi precedenti lavori prediligendo, al contrario, in questo “Divers”, uno sviluppo dei brani in tempi più “canonici”.
Insomma, detto in parole più spicce, la durata media delle tracce di questo album sta a cavallo tra i cinque minuti ed i cinque minuti e mezzo.
Partendo da questo presupposto, è facile arrivare alla conclusione che anche l’impianto melodico si sia semplificato.
Non è così. C’è la solita complessità , ma concentrata in un numero più esiguo di battute.

Già  approcciandosi al primo singolo, Sapokanikan, che sicuramente ha un piglio più pop ed ammiccante di un qualsiasi brano di “Have on Me”, sentiamo una Joanna che, pur esplorando nuove frontiere musicale, riesce sempre rimanere fedele a se stessa: la canzone infatti non è mai banale e svolta più di una volta, con cambi di ritmo veramente poco pop, ed “easy-listening”.

Poi c’è “Leaving the City” che secondo me è la traccia meglio riuscita dell’album. Una canzone che si presenta rassicurante con in soliti arpeggi eterei per poi sfociare in una plettrata potente ed in un cantato inacidito, quasi rabbioso e, non linciatemi, un po’ punk. Insomma, Anarchy in Gran Burrone.

Interessante anche Goose Eggs che vive di tensioni e di “vorrei ma non posso” tra un ritmo da camera ed una voce che cerca continuamente di spiccare il volo.
E potrei citare anche “Waltz of the 10st Lightborne” che è un po’ un ibrido tra una canzone country ed un inno pasquale o “You Will No Take My Heart Alive” in cui i fiati e la solennità  del ritornelli costruiscono una strana atmosfera morriconiana.
Potrei citare tante cose, insomma. Tantissimi, piccolissimi, quasi insignificanti particolari.
La verità  però è che ripeterei tante cose già  dette perchè Joanna Newsom aggiunge qualcosina alla formula ma lascia invariato il monolite portante. Quello stile caratteristico di “Ys”, che ritroviamo pari pari in “Have on Me” e che cambia poco in questo “Divers”.

A me quindi rimane poco spazio di manovra, e non mi resta che ripetere cose già  scritte da un milione di persone.

Tenendo il punto fermo della qualità  assoluta di questa artista e del valore cristallino delle sue melodie, ora rimane quel ronzio di sottofondo, quella domandina strisciante che sibila tra le mie tempie: ma è veramente una qualità  essere sempre uguali a se stessi?
Io non lo so. Ho sempre pensato che non sia un difetto, quello sì.
Però, resta il dato di fatto che ho sinceramente faticato ad arrivare in fondo a questo “Divers”.

Credit Foto: Annabel Mehran