Si ha la fortuna, a volte, di entrare in luoghi chiusi da tempo, quasi abbandonati. Una cantina diventata deposito degli oggetti di una vita, la soffitta a casa della nonna in cui nessuno mette più piede almeno dal novantatrè, uno sgabuzzino minuscolo stipato di scatoloni, ceste e sacchetti, il perchè siano ancora lì e non nella raccolta differenziata bene non si sa. Si riapre la porta di questi dimenticatoi alla ricerca di qualcosa, che non è detto si riuscirà  a trovare, ma si finirà  con il trovare qualcos’altro, di cui non ci si ricordava, o di cui nemmeno si è mai saputa l’esistenza.
Ascoltare “Garden of Delete”, ultimo album di Oneohtrix Point Never, non è così diverso. Basta tenere bene a mente alcune cose.

Dal fatto che un ripostiglio sia un luogo di dimensioni ristrette non consegue che ci stia poca roba lì dentro. Che tutto sia diviso in scatoloni non significa che ci sia un effettivo criterio organizzativo di fondo. Le etichette degli scatoloni non hanno giurato fedeltà  al contenuto, ma risultano a volte terribilmente generali, quando non fuorvianti.
Nei quarantacinque minuti di “Garden of Delete” c’è di tutto, un po’ stretto e condensato, sovrapposto o sfumato. Senza una struttura di fondo, i pezzi sembrano buttati lì, uno dopo l’altro, uno così diverso dall’altro. Mettere, quindi, un’etichetta di genere musicale è praticamente impossibile: si può imbrogliare parlando di “elettronica”, sapendo che si sta dicendo ben poco; con “sperimentale” si sta dicendo ancor meno. Tranne che l’album sia di facile ascolto o di facile definizione, si può iniziare con l’affermare una cosa: per esempio, che è un collage musicale meravigliosamente riuscito.

Farsi sconfortare dalla mole di scarpe, profumi, lucchetti, sacchetti, giocattoli rotti, vesti impolverati, libri ingialliti, addobbi natalizi e servizi da tè è normale. Il suggerimento è uno ed è il più semplice: sedersi e procedere con ordine (almeno apparente).
Iniziare da “Intro” e far scorrere tutto d’un fiato l’album fino a “No Good”, oppure saltare una traccia, riascoltarne un’altra tre volte di fila, bloccare il sesto pezzo a metà  per farlo ripartire dall’inizio: tutto è lecito. Se lo scopo è quello di trovare dei punti di riferimento, tra latrati e suoni spaziali, jingle ossessivi e brani radiofonici del millennio scorso, non si presenta certo come un’impresa facile. Non si riesce a immaginare cosa ci sarà  immediatamente dopo ciò che si sta ascoltando, tanto il tessuto di “Garden of Delete” è variabile e imprevedibile. Non si capisce nemmeno bene ciò che scorre nelle orecchie. Siamo in balia delle onde di Opn, ma perdersi è meraviglioso e sorprendente.

In ogni cantina, c’è un piccolo tesoro nascosto. Dietro al grande scatolone di cartone grezzo, un vinile che ha almeno il doppio dei vostri anni, un regalo che credevate perso, una scatola di fotografie in bianco e nero arrossate dal tempo. Cose che, non appena trovate, volete mostrare a qualcuno.
Ascoltando “Garden of Delete” alla ricerca della perla più preziosa viene facile puntare il dito su “Freaky Eyes”, essenza condensata di tutto l’album, ricerca raffinata e ottima qualità  di suono, con un inizio opaco e giù di giri, su cui si innestano echi di treni deragliati e melodie ipnotiche e ripetitive. E, se desiderate moltissimo condividere queste scoperte con qualcuno, Oneohtrix Point Never sarà  a Milano il 26 febbraio con Club To Club nella Buka.