Cercherò di ridurre all’osso i preamboli circa i quattro interminabili anni che ci hanno separati da quel gioiello che risponde al nome di “Channel Orange”. Sapete tutti del FrankOcean-gate: delle scadenze rimandate, di Boys Don’t Cry (prima titolo del nuovo album e poi del magazine in accompagnamento alla release fisica del disco) e dello spostamento dell’asticella dell’hype ad altezze proibitive. (E se non lo sapete poco importa, ma dove siete stati negli ultimi mesi?) Bene. Probabilmente sapete anche dei featuring quasi impalpabili di Beyoncè e Kendrick Lamar, di quelli ben più prominenti di Andre3000 e Bon Iver, del credit chiarito dei Beatles e di quello non ancora meglio identificato di David Bowie. Benissimo.
Ciò che conta è che due nuovi dischi di Frank Ocean sono tra noi, la nottata è passata e l’hype deve fare i conti con un reality-check: al netto dell’attesa e dell’aura di culto che si è creata intorno a Frank, come sono “Endless” e “Blonde” (o “Blond”, che dir si voglia)?

“Liquidiamo” il primo, un visual album distribuito su Apple Music per rispettare gli accordi contrattuali con l’etichetta Def Jam, come una (buona) raccolta di sketch abstract r’n’b condita da featuring importanti (James Blake su tutti) e più di qualche gemma da conservare (la cover degli Isley Brothers “At Your Best (You Are Love”), “Rushes To” e “Sideways” giusto per dirne tre). (Voto: 7).

Il vero e proprio secondo full-length di Frank Ocean è tuttavia “Blonde”. “Channel Orange” aveva mostrato al mondo un ragazzo con il cuore ancora spezzato, uno spleen romantico-decadente e una voce strepitosa per esprimerli. “Blonde” acuisce il tutto, dando ancora più spazio all’ugola di Ocean e mettendo (almeno apparentemente) in secondo piano la strumentazione. Meno beat (eccezion fatta per il primo singolo “Nikes” e “Nights”), meno percussioni, più chitarre acustiche (“Ivy”, la seconda parte di “White Ferrari”), strutture meno ortodosse (ancora “White Ferrari”, “Self Control”), malinconia a palate (una a caso: “Sigfried”). In questo senso, sebbene più di qualcuno abbia storto il naso, la sterzata sonora di “Blonde” funziona e, a voler spingersi oltre, è probabilmente la scelta migliore per effettuare uno scarto rispetto alla produzione soul e r’n’b contemporanea. I nasi sono stati storti sulla base di un’orecchiabilità  senz’altro inferiore rispetto a “Channel Orange”, ma lasciarvisi intimidire significherebbe perdersi un album altrettanto necessario se non di più.

Il salto di qualità  “Blonde” lo fa quando vi si scava più a fondo. Qualcuno ha scritto qualcosa del tipo che se “Channel Orange” era la festa, il suo successore è l’amaro risveglio. Non ha tutti i torti. Il cuore spezzato Frank ce l’ha sempre, la voce pure, eccome. Così come sesso e droga costituiscono una fetta importante della sua torta tematica. Ma non è difficile scorgere, rispetto al disco del 2012, una sorta di senso di abbandono e solitudine, forzata o spontanea, con tutta l’atmosfera che può derivarne. Frank disquisisce di tutto ciò con la verve confessionale di una “Bad Religion”, per intenderci. Solo, un po’ drogato, un po’ lucido, rassegnato, desideroso. Combattuto. Prendiamo la doppietta “Be Yourself” – “Solo”: per una madre che si raccomanda di tenersi alla larga da marijuana e alcohol c’è un figlio che trova il paradiso in una canna. Il verso “There’s a bull and a matador dueling in the sky”, oltre che una pregnante osservazione astrologica, è esplicativo di una lotta interiore tra sapere ciò che è giusto fare e l’incapacità  di ottemperarvi. Una dicotomia che si traduce anche nel rapporto tra parole e aspetto sonoro. In “Nikes”, Ocean deraglia in questioni profane quando afferma You got a roommate, he’ll hear what we do / It’s only awkward if you’re fucking him too. Ma lo fa sussurrando, quasi fosse una dichiarazione d’amore. è una delle, prendendomi una licenza, dissonanze cognitive che rendono “Blonde” una sorta di seduta di auto-esaminazione che procede ora a tentoni, ora speditamente, da parte di qualcuno che muore dal desiderio di tenersi i suoi segreti ma il momento dopo rivela più di quanto oseremmo chiedere.

“Blonde” si apre con la dichiarazione “We gon’ see the future first” e si chiude con la domanda How far is a light year? Prenditi il tempo che vuoi, Frank. Basta solo che quella distanza la percorri e torni qui a dirci cosa c’è, ancora una volta.