Nelle interviste che accompagnarono l’uscita di “Reflektor”, Win Butler spiegava come ad ogni album gli Arcade Fire dovessero essere considerati come una nuova band. Tanto che in occasione del mastodontico doppio del 2013, i canadesi si esibirono sotto il nome di Reflektors. La costante, in ogni caso, era quella di un gruppo capace di sfornare lavori diversi ma con un trademark di fondo ben preciso: magniloquenza, incisività , epica, capacità  di smuovere gli elementi e portare tutto ad un livello superiore. In una parola, trascendenza.

In questo senso, “Everything Now” è un disco perlopiù immanente e addirittura spesso inconsistente. “Signs of Life”, “Peter Pan” e “Chemistry”, pur non potendo ascriversi alla categoria “pezzi brutti”, faticano a lasciare il segno e farebbero meno male in una tracklist ben più corposa. L’ultima (che, val bene precisarlo, è tutt’altro che una canzone d’amore quanto piuttosto il delirio di uno stalker o una dichiarazione d’intenti corporativa) in realtà  parte pure bene, con uno ska saltellante di chiara influenza New Orleans-iana (dove i coniugi Butler risiedono), per poi perdersi tra riff alla Led Zeppelin troppo puliti e un refrain scontato e reiterato fino al punto di non ritorno. “Signs of Life” farà  pure muovere il culo e lasciar intravedere scorie reflektoriane dopo il primo ritornello, ma è anche vero che Butler non è ancora David Byrne e il pezzo scivola via senza putroppo fare i meravigliosi danni di “Reflektor” e “Afterlife” ma propinandoci paranoicamente la locuzione “signs of life” per una trentina di volte. Ed è proprio sul versante testi che si scivola più o meno clamorosamente: a puro titolo di esempio, Infinite content, infinite content / We’re infinitely content forse suonava di gran lunga più intelligente nella testa del frontman, così come al Be my Wendy, I’ll be your Peter Pan / Come on baby, take my hand ci si abitua molto a fatica.

Non mancano tuttavia momenti in cui la band fa ciò che le viene meglio. La title track è il singolo da classifica che finora mancava all’appello, ma l’orecchiabilità  non va a discapito della qualità  (il violino di Sarah Neufeld e i cori euforici conferiscono quella tensione all’infinito di cui parlavamo). “Creature Comfort” unisce New Order, controcanti esasperati di Regine e nuove richieste antemiche (“Creature comfort, make it painless!”), anche se siamo lontani da una “Power Out” o da una “Sprawl II” o, senza guardare troppo indietro, ad una “Here Comes the Night Time”. Nella tripletta conclusiva “Good God Damn” (piuttosto ripetitiva anche questa) – “Put Your Money on Me” – “We Don’t Deserve Love” finalmente ricompare il massimo sistema preferito da Butler, la religione: prima (Joe Strummer ringrazia) come possibile conforto e motivo di dissuasione per qualcuno sull’orlo di farla finita (Maybe there’s a good God, if He made you), giocando sull’abbinamento dei tre termini (il “good gooddamn” qui è l’imprecazione finale prima di passare all’altro mondo), poi come paraocchi per i soliti fondamentalisti. Ed è proprio nelle due tracce finali che il disco fa il salto di qualità  e si salva, finalmente lasciando spazio alla vulnerabilità  e all’empatia. “Put Your Money on Me” mescola uno squarcio alla “Neon Bible” con cori che più Abba non si può su un tappeto ritmico di stampo Future Islands, mentre Win rassicura Regine che può scommettere su di lui e sulla sua fedeltà  nonostante la sua famiglia (mormona) non veda l’unione di buon occhio (My mother was crying on the day of our wedding). Con buona pace di Butler (che perlatro l’ha già  indicata come una delle loro migliori di sempre) è non a caso quella che ricorda più da vicino la cara vecchia epica.
Non è ben chiaro a chi corrisponda il “noi” di “We Don’t Deserve Love”, ma probabilmente siamo di fronte all’altra faccia della medaglia di “We Exist”, quindi ad una comunità  LGBTQ+ che si vede negata la possibilità  di amare liberamente (You try to figure it out, you never figure it out / Your mother screaming that you don’t deserve love), prima di chiudere con una similitudine biblica (Go on Mary, roll away the stone / the one you love always leave you alone) e chiedere direttamente a Gesù di chiarire la situazione. Tutto questo avviene nell’episodio più languido degli Arcade Fire dopo “Neighborhood #4 (Kettles)” e “Crucified Again”, con tanto di pedal steel guitar di Daniel Lanois (già  collaboratore degli U2). L’unico pezzo cantato interamente da Regine, il Tom Tom Club di “Electric Blue” (forse un omaggio a Bowie, non solo nel titolo: “Summer’s gone and so are you”, “I don’t know how to sing your blues”), guadagna punti nell’economia dell’album, e ci si chiede come mai di tali avvicendamenti al microfono non ve ne siano in numero maggiore. Insomma, giunti a “Everything Now (continued)”, un senso di inusitata incompiutezza fa capolino assieme alla domanda che mai avremmo immaginato di porci di fronte a un lavoro degli Arcade Fire: tutto qui?

è anche vero che ci avevano probabilmente abituati troppo bene, ma pare poco per una band fino a ieri capace di spazzare tutto quanto le si ponesse davanti. Il solito concetto di fondo (la soprasaturazione delle nostre spiagge virtuali, il marketing esasperato – scoperta dell’acqua calda, peraltro) c’è, come pure la trovata del loop che lega l’ultimo pezzo al primo impostando la funzione repeat, ma per la prima volta il gioco fatica a valere una candela che più che squarciare l’oscurità  regala solo timidi sprazzi di luce. Lungi dall’essere un album scadente, Everything Now è il primo momento non necessario degli Arcade Fire, un episodio normale in una discografia prima d’ora eccezionale.