Tutti ricordiamo i primi anni Duemila come una vera e propria epoca d’oro per l’indie rock statunitense: band tanto valide quanto diverse tra loro quali Strokes, Interpol e White Stripes raggiunsero uno spropositato successo con album che, a distanza ormai di ben più di un decennio, continuano a essere amati e ascoltati in ogni dove. A seguire l’esempio di questi pezzi da novanta arrivò in seguito una sempre più nutrita schiera di epigoni che, gonfiati all’inverosimile dalla critica e dalla rete (all’epoca i forum e Myspace erano ancora rilevanti per le nuove leve musicali), abbassarono in maniera sensibile gli standard qualitativi, producendo prove incolori e ormai dimenticate dai più. Non c’è da sorprendersi, quindi, se tra tanta mediocrità  i Vampire Weekend non faticarono molto a centrare il bersaglio già  con il loro delizioso debutto datato 2008, che fece gridare al miracolo numerosi esaltatissimi addetti del settore.

Foraggiati dallo spirito cosmopolita della Manhattan dell’Upper West Side e freschi di laurea alla prestigiosissima Columbia University, questi quattro giovani pacati ed elegantissimi dimostrarono sin da subito di avere dalla loro parte una fantasia e una classe inedite per dei debuttanti. Dietro l’aria di bravi ragazzi si nascondeva la perizia di musicisti esperti e soprattutto curiosi, in grado di creare quasi dal nulla un irresistibile melting pot di indie pop e world music, impreziosito da sfarzosi ma mai invadenti arrangiamenti d’archi e un discreto gusto per il barocco. Le canzoni dei Vampire Weekend hanno le stesse gradevoli sfumature pastello dei film di Wes Anderson; le loro melodie sono piacevoli come un picnic vegan nel tepore di una leggera brezza estiva. Troppo radical chic? Può darsi; eppure i Vampire Weekend sono tutt’altro che pretenziosi e irritanti. Gli influssi etnici sono più indiretti che diretti: i beat caraibici, le contaminazioni reggae e le chitarre surf di “Mansard Roof”, “Oxford Comma”, “A-Punk” e “Cape Cod Kwassa Kwassa” sono chiari segni dell’ascolto prolungato di Clash, Talking Heads e Paul Simon, dal cui capolavoro world “Graceland” Ezra Koenig e soci hanno attinto a piene mani. Ridotto quasi a zero lo spazio per rock e distorsioni: è vero, nel ritornello di “Campus” e nella batteria “reptiliana” di “I Stand Corrected” emergono alcune somiglianze con i ben più grezzi Strokes, ma qui non vi è traccia di revival garage.

Piuttosto c’è un profluvio di archi, clavicembali e organi a tingere di barocco il placido indie pop del quartetto: è questo forse l’aspetto più peculiare dell’album, avvolto da un fascino classicheggiante portato in dote dal geniale ex tastierista, produttore e arrangiatore della band, l’iraniano-statunitense Rostam Batmanglij. A lui va l’onore di aver trasformato brani come “M79” e “Walcott” in piccole gemme chamber pop, piene zeppe di riferimenti colti e raffinatezze in grado di conquistare anche i cuori degli hipster più duri e puri. Dopo l’ottimo esordio i Vampire Weekend ““ caso più unico che raro ““ sono riusciti a non tradire le promesse, producendo altri due lavori di enorme successo (“Contra” del 2010 e “Modern Vampires of the City” del 2013) e facendo incetta di premi: uno su tutti, il Grammy per il miglior disco di musica alternativa nel 2014. Tuttavia, la freschezza dell’omonimo targato 2008 resta ancora la migliore fotografia del loro indiscutibile talento.

Vampire Weekend ““ “Vampire Weekend”
Data di pubblicazione: 29 gennaio 2008
Tracce: 10
Lunghezza: 34:13
Etichetta: XL
Produttori: Rostam Batmanglij

1. Mansard Roof
2. Oxford Comma
3. A-Punk
4. Cape Cod Kwassa Kwassa
5. M79
6. Campus
7. Bryn
8. One (Blake’s Got a New Face)
9. I Stand Corrected
10. Walcott
11. The Kids Don’t Stand a Chance