Francesco De Leo è uscito dalla dimensione “Officina della Camomilla” e si è messo a scrivere brani e canzoni da solo. Il suo modo di scrivere, che da sempre è accattivante, diverso e eccentrico, ha trovato in Giorgio Poi un produttore incredibile, ideale. La trade union ha dato vita a “La Malanoche”, uscito per Bomba Dischi.

Se Charles Dickens per ispirare la sua scrittura dormiva sempre rivolto verso il nord, portando con sè sempre una bussola; De Leo ha la capacità  di lasciar perdere il polo nord magnetico regalandoci un viaggio iperspaziale privo di ogni coordinata del tempo e dello spazio.

Tutto questo amplifica ancora di più quello che è un disco creativo e introspettivo.

Coniugare questi due aspetti non è mai banale o semplice, ma in quel “Satana Forever“, detto in “Lo Zoo di Torino”, c’è proprio una cifra stilistica che riesce a mettere in perfetto accordo l’esuberanza creativa dell’artista con il rigore della ricerca musicale e letteraria.

Per quanto riguarda l’universo di citazioni scatenato nel disco, ci si avvicina sempre molto alla poetica già  toccata con L’Officina della Camomilla. L’innovazione però è nella ricerca di un suono più elettronico, che riesce ad essere allo stesso tempo fatiscente, imponente, ma anche sfumato e delicato.

Il disco è ostico e non di immediata comprensione, infatti  quando sembra di trovarci davanti ad un’approssimazione grossolana, drizzando bene le orecchie ci si imbatte sempre in una serie di passaggi di chitarra da ammirare e riscoprire ascolto dopo ascolto.

Proprio nella “falsa” fatiscenza del suono è nascosto un grande pregio e rischio di De Leo, quello di ridare una nuova vita alle frasi ripetute, alle donne condannate, alle batterie elettriche in loop, a percussioni sgangherate e alle persone che non hanno più niente da dire.

Gli eroi dell’arte, della musica e del pensiero contemporaneo sono quelli che agiscono piuttosto che pensare: De Leo, da buona anti pop star, è spontaneo, pragmatico e naturale come un giro in una periferia malfamata.

Il disco ha un incredibile sviluppo, non so se consapevole, di una cosa che si può chiamare “immaginazione uditiva”. Tramite le parole e le sillabe di ogni canzone, che si intrecciano in una tela di suoni molto complessa e ritmi originali, si riesce a riavvolgere il filo verso qualcosa di estremamente primitivo, antico ma allo stesso tempo sorprendente, che cancella ogni traccia di banalità .

Le composizioni e i testi sono pieni di una punteggiatura, musicale e grammaticale, barocca e per alcuni superflua, che tuttavia regala un senso e una natura profonda anche al Francesco De Leo solista.

Il disco parte con tre/quattro pezzi veramente indelebili, poi si perde leggermente proprio in tutti questi suoi virtuosismi, che tante volte rischiano di soffocarlo e di far uscire l’ascoltatore da un loop, in cui ci si deve abituare con moderazione.

Lo spazio narrativo di De Leo ha saputo anche raccontare delle donne come “Mylena” e “Lucy”: non a caso Francesco Bianconi, il più grande narratore di figure femminili della musica contemporanea italiana, lo ha scelto per aprire i suoi concerti con i Baustelle.

Rischiare la vita significa rimanere profondamente se stessi, anche lanciandosi in una nuova avventura. Nel mio profondo so che un disco d’esordio come questo verrà  rivalutato e ripreso tra cinque o dieci anni, quando si potranno tirare sostanzialmente le somme di quello che è rimasto sulla scena.