Cantore del disagio giovanile, paladino di orde di adolescenti depressi e maestro del vocalizzo schizofrenico: negli anni “’90 Jonathan Davis è stato questo e molto di più. Insieme ai Korn ha segnato l’epoca d’oro del nu metal, regalandoci una serie di memorabili album sprizzanti ansia, angoscia e rabbia da tutti i pori. Un uomo che purtroppo sembra aver seguito il triste destino delle sue amatissime tute in acetato dell’Adidas: da quando sono diventate fuori moda non ne ha azzeccata praticamente una. L’ultimo capitolo a firma Korn degno di nota è “Untouchables”, uscito nell’ormai lontanissimo giugno 2002: a seguire esperimenti malriusciti, stantii ritorni alle origini e, tanto per non farsi mancare nulla, anche un disastro in salsa dubstep (“The Path of Totality” del 2011).

Con la band madre impantanata da tempo immemore in un vuoto d’ispirazione, non sorprende la decisione del barbuto frontman di Bakersfield di volersi giocare la carta della carriera solista. A dir la verità , si tratta di un’idea che gli balenava in testa già  da un po’: i lavori su “Black Labyrinth” sono iniziati nel 2007 e proseguiti in maniera molto lenta nel corso del decennio successivo, tra una pausa e l’altra dei sempre attivissimi Korn. La volontà  di mettersi in proprio non l’ha mai nascosta e qualche piccolo indizio sparso qua e là  ce l’aveva già  dato, tra singoli, colonne sonore (“Queen of the Damned” del 2002 e “After the Dark” del 2013) e progetti di varia natura (Jonathan Davis and the SFA, JDevil e Killbot).

In “Black Labyrinth” tuttavia lo ascoltiamo per la primissima volta alle prese con un vero e proprio album di inediti a suo nome e il risultato non è assolutamente convincente. Un pur coraggioso e appassionato Davis prova a infilarci dentro tutte le sue influenze (la new wave, l’industrial, l’elettronica e persino la world music) ma non riesce a ottenere nulla più di un furbetto guazzabuglio alt metal estremamente radio-friendly e anche un po’ antiquato. Il ritornello allegrotto (e banalotto) di “Underneath My Skin” non potrà  che far storcere il naso ai fan più incalliti dei Korn, qui accontentati solo in una manciata di episodi leggermente più ruvidi: “Everyone”, “Your God”, “Walk On By” e “Happiness” potrebbero essere scarti del poppeggiante “See You On The Other Side”, e già  questo di per sè non è un ottimo segno. Le cose sembrano andare per il verso giusto solo quando Jonathan Davis tira fuori interpretazioni degne del suo talento in intense ballatone dark come l’esotica “Basic Needs” e la drammatica “What It Is”; il resto scorre via tra pacchianate etniche (“Final Days”), maldestri tentativi di fare il verso ai Nine Inch Nails (“What You Believe”, “Medicate” e “Gender”, quest’ultima con un riff di sitar suonato dallo stesso Davis) e pomposi lentoni sintetici (“The Secret”, “Please Tell Me”).

Nell’orrenda copertina del disco un redento Jonathan Davis è all’interno di una chiesa, circondato da centinaia di lumi e con lo sguardo meravigliato rivolto verso una luce di probabile natura divina. Dovremmo cominciare a preoccuparci? Anche lui si è perso in una crisi mistica, come il collega Brian “Head” Welch? Forse no, ma comunque non sembra orientarsi molto bene nei meandri di questo labirinto nero.