Barba incolta, capelli unti e occhi marci. A una canaglia come Max Cavalera basta uno sguardo minaccioso per far fuggire a gambe levate il nutrito esercito di imitatori che da anni gli ruba idee da sotto il naso. E anche se il vecchio leone brasiliano non ruggisce più come ai tempi d’oro dei Sepultura, di tanto in tanto gli capita ancora di regalarci piacevoli sorprese. Sempre rigorosamente pesanti come macigni, naturalmente.

Con “Ritual”, undicesimo album in studio dei suoi Soulfly, il frontman di origini italiane sembra finalmente voler risalire la china dopo un decennio ricchissimo di uscite ma povero di momenti memorabili. A dare una mano al quartetto (al fianco di Cavalera ci sono il figlio Zyon alla batteria, Mike Leon al basso e il fedelissimo Marc Rizzo alla chitarra solista) è stato chiamato l’esperto produttore Josh Wilbur, cui va il merito di aver riportato la band sui binari del groove metal più dinamico e d’impatto.

Potenza e sonorità  moderne per nove tracce (l’orrendo strumentale “Soulfly XI” è meglio lasciarlo fuori) che, tuttavia, guardano molto poco al futuro. “Ritual” è infatti la consueta operazione nostalgia a firma Max Cavalera, che continua a pescare a piene mani dal suo glorioso passato per dar vita a brani spesso accattivanti, ma incredibilmente carenti sul piano della personalità . Piccoli mostri di Frankenstein assemblati con frammenti di Sepultura, Nailbomb e Soulfly d’antan per quarantatrè minuti in cui lo spazio all’esplorazione di soluzioni inedite è assai limitato.

Il mix tra hardcore e Motörhead alla base di “Feedback!” è quanto di più curioso ci abbiano fatto ascoltare dai tempi dei non riuscitissimi esperimenti death di “Enslaved”; i passaggi di “Under Rapture” affidati all’ugola scartavetrante di Ross Dolan degli Immolation introducono elementi di furioso grindcore alla consueta ricetta crossover fatta di ritmi tribali e influenze etniche. Due caratteristiche tipiche del sound dei Soulfly che, dopo una latitanza abbastanza prolungata, tornano qui ad avere un ruolo centrale.

Peccato solo si tratti di una forzatura messa lì per impressionare i fan della prima ora: gli inserti di percussioni, flauti, chitarre flamenco e canti di popoli indigeni del Brasile che resero grandi i Sepultura di “Chaos A.D.” e “Roots” qui aggiungono poco o nulla a bordate thrash quali “Demonized” o “Blood On The Street”. Per non parlare poi della title track, che è semplicemente una nuova versione di “Ratamahatta” con il riff principale preso in prestito da “Prophecy”.

In questa sagra del già  sentito non tutto è da buttare: “Bite The Bullet”, nonostante il ritornello assolutamente identico a quello di “No” (da “Soulfly”, 1998), colpirà  positivamente gli amanti del periodo nu metal; gli eccellenti breakdown “grooveggianti” di “The Summoning” e “Evil Empowered” sono da torcicollo assicurato.

Ma a darci qualche timida speranza per il futuro dei Soulfly è la meravigliosa “Dead Behind The Eyes”, dedicata al capolavoro horror di Clive Barker “Hellraiser”: strutture complesse, repentini cambi di tempo e un ospite versatile come Randy Blythe dei Lamb Of God per cinque minuti di dolorosa estasi. Perchè non provare a ripartire da qui?