Jack Savoretti è un ottimo cantante, ha un volto che ispira simpatia, ha mantenuto legami con l’Italia, sua Terra d’origine e sempre più spesso lo si vede partecipare a eventi musicali che riguardano il nostro Paese, come nel caso del suo duetto con i genovesi Ex Otago, in occasione dell’ultimo Festival di Sanremo. Affinità  elettive ma anche territoriali verrebbe da dire, visto che Savoretti senior partì proprio da Genova alla volta dell’Inghilterra, dove poi Jack (nome completo Giovanni Edgar Charles Galletto Savoretti) sarebbe nato nel 1983.

Ragion per cui il cantautore anglo-italiano, già  noto negli ambienti più alternativi, è diventato un nome ormai piuttosto riconoscibile ai più, anche se mancava ancora quel qualcosa che potesse non dico farlo assurgere a popstar, ma più semplicemente che potesse fargli ottenere un successo mainstream dalle nostre parti.

Arriva quindi con giusto tempismo questo suo nuovo lavoro: “Singing To Strangers”, che si presenta in effetti come un disco assolutamente maturo, ottimamente prodotto e arrangiato, e con la cifra stilistica inconfondibile del suo autore. Basterà  per farlo uscire dal limbo delle promesse e farlo emergere come uno dei più interessanti cantautori della sua generazione?

Ascoltando le 15 tracce (!) però, comprese due canzoni riprese live dalla Fenice di Venezia che fungono da bonus track, la risposta rimane in sospeso, per quanto non si tratti assolutamente di un disco brutto, anzi.

Le canzoni suonano come detto in maniera egregia, hanno un respiro ampio che sembra riappropriarsi appieno di tutto quell’immaginario da colonna sonora anni ’70, a partire dagli arrangiamenti spesso orchestrali, per finire alle atmosfere rese ancora più sognanti dalla voce espressiva di Savoretti, in grado di trasmettere passione e far uscire la sua anima.

D’altronde lui stesso ha definito questo disco come quello in cui ha maggiormente lasciato defluire il suo vissuto interiore, andando a ritroso sino alla scoperta delle sue stesse origini. Un omaggio che non è propriamente alla musica italiana, seppur esplicitata nella traccia finale in cui riprende da par suo la celebre e sofferta “Vedrai, vedrai”, omaggiando in maniera piuttosto fedele il mito di Tenco, ma piuttosto alla nostra storia, alla nostra Terra. L’intero disco è stato tra l’altro registrato a Roma e tra i collaboratori, tutti con grande e rispettoso background, compare anche il polistrumentista Davide Rossi.

C’è da premiare l’idea di scollegarsi da qualsiasi moda musicale del momento, per proporre qualcosa che guardi indietro nel tempo, che abbia un chè di sostanzioso, che possa suonare elegante come lo erano i dischi degli anni ’70 appunto, ma anche del decennio precedente, sul versante soul e r’n’b (i modelli sono quelli “nobili” della Motown e della Stax). Insomma, niente a che vedere con ciò che è effimero, fugace, ma al contrario qualcosa di ben sostanzioso.

Non sempre però i risultati sono congrui con questa lodevole ambizione, e la sensazione che il disco sarebbe stato più efficace in mancanza di 5-6 pezzi, c’è tutta. L’album suona infatti sin troppo omogeneo, pulito, lineare, e anche l’attesa “Touchy Situation”, il cui testo è di Bob Dylan, scorre in realtà  piuttosto anonima. Sono presenti comunque delle canzoni con dei picchi qualitativi per scrittura e struttura ritmica, che è giusto in questa sede evidenziare.

Ad esempio risulta efficace il brano d’apertura “Candlelight”, dove l’arrangiamento orchestrale (oltre all’interpretazione carica di pathos di Jack), conferisce solennità . Anche l’imperioso crescendo di   “Going Home” è lodevole, così come già  si era fatto ben apprezzare il singolo “What More Can I Do?”. Molte ballate trattano il tema amoroso e fra tutte, si fa preferire la pianistica “Things I Though I’d Never Do”, che il Nostro interpreta da navigato crooner.

E’ un disco che si lascia ascoltare volentieri ma che non fa sobbalzare dalla sedia, votato com’è a un easy listening, certamente di classe, ma privo per certi versi del mordente che ha sempre contrassegnato i suoi album precedenti.

Gli ingredienti per un exploit di Jack Savoretti presso il pubblico generalista ci sono tutti, ma per una volta è come se la forma abbia prevalso, seppur di poco, sulla sostanza.