Con ottime probabilità  furono menefreghismo, pigrizia e, perchè no, tratti di leggerezza e ironia assolutamente inediti per la scena a salvare i Darkthrone dal vortice di violenza e distruzione che travolse il black metal norvegese intorno alla metà  degli anni Novanta. Mentre quei cattivoni di Varg Vikernes (Burzum), Euronymus (Mayhem) e Samoth (Emperor) trascorrevano le loro giornate a pianificare roghi di chiese ed efferatezze di ogni sorta nell’oscuro seminterrato dell’Helvete ““ il negozio di dischi di Oslo che fece da vero e proprio quartier generale a questa cricca di giovanissimi satanisti ““ il batterista Fenriz si trovava al piano di sopra, ubriaco marcio dopo essersi scolato intere casse di birra da solo. Il cantante/chitarrista/bassista del duo, Nocturno Culto, preferiva invece tenersi il più lontano possibile dal mondo civile: da giovane viveva in una foresta.

Oggi entrambi conducono esistenze assolutamente normali. Coerenti fino al midollo, portano avanti il progetto Darkthrone con la passione e l’entusiasmo di chi, oltre a un po’ di sano divertimento, non ha davvero più nulla da chiedere. Mettere la testa fuori dal sottobosco metallaro? Neanche per scherzo: sono talmente trve da aver bisogno di lavorare per poter campare; è il prezzo da pagare per chi da decenni rifiuta di fare tournèe, principale se non unica possibilità  di guadagno rimasta alle band di nicchia.

Nessuno si sorprenda, quindi, nello scoprire che i sei brani di “Old Star” sono stati scritti e registrati dopo ore e ore passate seduti dietro il bancone di un ufficio postale (Fenriz) o alla cattedra di una scuola (Nocturno Culto ““ con la speranza che i suoi studenti lo chiamino semplicemente professor Skjellum). Alla base di questa diciassettesima prova a firma Darkthrone c’è tutta la vitalità  e l’energia di chi, al termine di un noiosissimo turno in ufficio, ha l’impellente necessità  di dar sfogo a una creatività  letteralmente senza limiti.

L’estro della coppia norvegese si materializza con incredibile potenza nella quantità  smisurata di riff che, tanto per cambiare, rappresentano il piatto forte della casa: dall’attacco furioso di “I Muffle Your Inner Choir” alla lentezza solenne che apre la conclusiva “The Key Is Inside The Wall”, non c’è una singola nota di chitarra che sia fuori posto.

E anche quando si avverte qualche ombra di stanchezza ““ perlopiù legata a quello spiacevole effetto da “taglia e cuci” che viene a crearsi quando si comprimono così tante idee in una manciata di minuti ““ alla fine prevale sempre una caratteristica che non ti aspetteresti mai da chi, sin dagli esordi in campo death metal, ha fatto del lerciume e della pesantezza gli unici due irremovibili fari del proprio percorso artistico: il gusto.

Perchè ci vogliono gusto e grande intelligenza per inserire tracce di hard rock classico di stampo “’70s e “’80s in una lenta, rumorosissima centrifuga di doom, death, thrash e black (o di quel che ne rimane). Nessun compromesso: solo sano, vecchio heavy metal. Nella sua forma più sporca e selvaggia.

Credit Foto: Ashley Maile