«A jewel box of a record ». Un gioiello. Così Bruce Springteen  ha definito il suo 19esimo album, “Western Stars”.  Il primo album di inediti (“High Hopes” del 2014 era un raccoltone) dopo “Wrecking Ball” del 2012, è un ritorno alle registrazioni da solista, che proiettano il boss in una nuova dimensione, che si era lasciato alle spalle da più di un decennio.    Tredici tracce cinematografiche registrate nello studio che ha costruito nel suo ranch in New Jersey, sostenute da arrangiamenti orchestrali eleganti e maestosi e riempite di fiati, pedal steel, farfisa, Moog, violini, campanelli e un’infinità  di altri strumenti (suonati tra gli altri da personaggi come Charlie Giordano, Soozie Tyrell, Jon Brion e David Sancious, il vecchio amico che viveva nella E Street di Asbury Park che ha dato il nome alla sua band, la sua autobiografia racconta molto di tutto ciò) per immergere in una atmosfera da western la sua voce, potente e vicina grazie alla produzione impeccabile di Ron Aniello. Un mondo nuovo, diverso dalla trascendenza rock e dall’abbraccio trascinante dei dischi con la E Street Band e dalla desolazione emotiva e dall’urgenza dei suoi album solisti acustici (da “Nebraska” a “The Ghost of Tom Joad” a “Devils & Dust”) in cui Bruce Springsteen entra come se fosse lì da sempre per costruire il suo racconto. “Western Stars” è un disco descrittivo, per l’ascoltatore riflessivo, che ti sorprende per alcune scelte negli arrangiamenti, ma che suona piacevole, sincero, vintage ma non retrò ma il tutto con la solita naturalezza, precisione ed efficacia tanto nota all’immenso cantautore del NJ.

Ancora una volta, e sempre ben volentieri, nei testi troviamo la sua idea di America, intesa come viaggio, strada, paesaggi che scorrono dal finestrino, e soprattutto le persone, piccole comunità  che si radunano e individui irrimediabilmente solitari che si isolano, agganciandosi subito all’immaginario che gli serve per raccontare storie personali che diventano collettive con i primi due pezzi, “Hitch Hikin”  (“Faccio l’autostop tutto il giorno / Con me ho quello che riesco a portarmi dietro e la mia canzone / Sono una pietra rotolante che va avanti / Raggiungimi oggi perchè domani non ci sarò più“) e “The Wayfarer”  (“Quando tutti dormono e le campane di mezzanotte suonano / Le ruote della mia auto sibilano sull’autostrada, girano senza mai fermarsi“).  In ogni canzone di c‘è un personaggio perfettamente messo a fuoco, trasformato in icona da una musica che è dolente quando racconta la sconfitta, sublime quando accompagna un’improbabile redenzione, melodica quando si aprono i grandi spazi: lo stuntman senza gloria di “Drive Fast”  , toccante e bellissimo il cantante che non ha sfondato e ha perso la donna che ama di “Somewhere North of Nashville” , ma anche il lavoratore di “Tucson Train” che aspetta alla stazione la sua donna che arriva con il treno delle cinque e un quarto solo per mostrarle “Che un uomo può cambiare”. Non siamo ai livelli di “The River”, ma possiamo solo ammirare il coraggio di raccontare ancora una volta le possibilità  che spesso non riusciamo a cogliere, la voglia di farcela sempre e comunque o addirittura di mollare ma dopo averci provato fino alla fine.

Le storie rappresentano una sorta di colonna sonora malinconica, senza mai trascurare i suoi idoli musicali e letterari rispettivamente Morricone,    Guthrie,   in  un viaggio che più che la strada sembra dipingerne i tramonti all’orizzonte e le mete apparentemente irraggiungibili. Tredici tracce come se fossero 13 racconti, storie di un america rurale sempre più viva, mai scomparsa e ancor’oggi più che mai, territorio di vite che non puoi fare altro che raccontare.

Credit Foto: Rob DeMartin