Nonostante siano appena arrivati al debutto, i britannici black midi hanno già  fatto sapere di essere pronti a spingere il loro indefinibile sound verso strade diverse rispetto a quelle imboccate per “Schlagenheim”. Se non avessi ascoltato l’album in questione, avrei considerato tale dichiarazione decisamente altisonante e ardita: i quattro londinesi sono in attività  solamente da un paio d’anni e devono ancora dimostrare davvero il loro valore. Queste nove tracce prodotte dall’espertissimo Dan Carey ““ già  al lavoro con Franz Ferdinand, Bat For Lashes ed Emiliana Torrini, tra i tanti ““ valgono però più di mille parole: i black midi sono qui per restare.

La contaminazione è il perno attorno al quale ruotano i quarantatrè minuti di “Schlagenheim”, nato prevalentemente nel corso di intensissime jam session condotte a porte chiuse. Per Geordie Greep (voce e chitarra), Matt Kwasniewski-Kelvin (voce e chitarra), Cameron Picton (voce e basso) e il fenomenale Morgan Simpson (batteria) la sala prove deve essere una sorta di inviolabile tempio dedicato alla fantasia; un’agorà  in cui mettere a confronto i propri gusti musicali per poi fonderli in un’originalissima lega di progressive, math rock, post-punk e noise.

Tra i punti di riferimento dei black midi, stando al comunicato stampa che accompagna l’uscita del disco, vi sono gli artisti più disparati: Death Grips, Danny Brown e Deerhoof per quanto riguarda i moderni; Miles Davis e Talking Heads sul versante dei classici. La band attinge da epoche e generi lontani e vicini per dar forma a un suono talmente ricco e dinamico da riuscire a far passare in secondo piano i difetti, che pure non mancano: qua e là  emergono i segni di una giustificatissima immaturità , ma vi è anche qualche passaggio un po’ troppo cervellotico e difficile da digerire per un gruppo che si è autodefinito autore di “musica accessibile con aspetti sperimentali”.

Sì, i black midi hanno uno spiccato animo pop; ma è una sensibilità  che probabilmente deriva da influenze indirette, tendenti a quel post-punk cui si faceva riferimento in precedenza. Restando nell’ambito, è impossibile non fare riferimento al peso esercitato dalla lezione appresa dagli statunitensi Protomartyr: in “953” fanno la loro comparsa tracce di spoken word e improvvise scariche di nervosismo elettrico che non avrebbero sfigurato nel recente “Relatives in Descent”.

Se “Speedway” e “Reggae” sono due begli esempi di math rock ultra-tecnico e dalle tinte “battlesiane”, “Near DT, MI” intriga per le sue cupe atmosfere fusion interrotte improvvisamente da parentesi hardcore.   Negli otto minuti di “Western” ““ forse il brano migliore di “Schlagenheim” – le chitarre alternano placidi arpeggi di scuola country/folk a virtuosismi avant-garde alla King Crimson periodo “Discipline”. Questo contrasto in tempi dispari tra calma e rabbia continua nella delirante “Of Schlagenheim”, mentre l’attenzione riservata alla sezione ritmica  in “bmbmbm” e “Years Ago” è un’attestazione di stima abbastanza chiara nei confronti dei già  citati Death Grips e del loro hip hop incredibilmente impuro.

La chiusura spetta alla cadenzata “Ducter”, un coraggioso esperimento quasi ballabile nel quale i black midi uniscono l’amore per la musica etnica (l’impiego di percussioni e riff terzinati) a quello per l’indolenza post-rock tipica degli Slint. Di carne al fuoco, lo avrete capito bene, ce n’è moltissima. Di idee interessanti, persino di più. Ma non è ancora il momento di strapparsi i capelli dalla testa. Chissà , forse al prossimo giro”…Attendiamo fiduciosi la già  annunciata evoluzione.

Credit Foto: Dan Kendall