Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi del fulminante esordio dei Life Of Agony, “River Runs Red”. Dal 1994 a oggi la band di Brooklyn si è sciolta e riformata un paio di volte, ha rotto definitivamente i rapporti con il batterista Sal Abruscato e visto il suo frontman diventare una frontwoman. Il cambio di sesso ha permesso a Mina Caputo (in passato Keith) di trovare un equilibrio e una serenità  che non aveva mai conosciuto, complice un’infanzia tristissima segnata dalla morte della madre e dalla tossicodipendenza del padre.

Un malessere che ha sempre trovato ampio spazio nella musica e nei testi del quartetto statunitense, autore di un post-grunge molto deprimente che, almeno una volta, si contraddistingueva per le sue frequenti incursioni in territori hardcore e alt metal. Del granitico suono che fu resta poco o nulla: “Sound Of Scars”, presentato dai Life Of Agony come seguito ideale di “River Runs Red”, non lascia alcuna cicatrice sulla pelle degli ascoltatori.

Non ha particolari difetti, ma neanche alcun pregio in grado di renderlo davvero interessante. Le chitarre di Joey Z. non graffiano più come una volta, limitandosi a disegnare corposi riff sui quali si adagia la voce di una Mina Caputo che, per forza di cose, non riesce più a toccare gli abissi baritonali che la resero degna erede di Glenn Danzig e Peter Steele.

Il suo punto di riferimento oggi potrebbe essere Scott Weiland; quasi tutti i brani di “Sound Of Scars”, infatti, avrebbero funzionato particolarmente bene in un’ipotetica svolta heavy degli Stone Temple Pilots. E quando ti ritrovi a fare il verso a un gruppo che non ha mai fatto dell’originalità  una prerogativa, forse qualche domanda dovresti cominciartela a fare.

L’ottima prestazione di Veronica Bellino alla batteria, infine, non riesce a spazzare via la nostalgia per il grande Sal Abruscato, la cui mano pesante rese memorabili i primi due dischi dei Type O Negative. Consigliato esclusivamente ai fan più fedeli, che sicuramente sapranno apprezzare le sferzate metal di “Lay Down” e quelle hardcore dell’ottima “Empty Hole”.

Credit Foto: Tim Tronckoe