Il meglio è ormai da un pezzo alle spalle, ma va bene così. I quarantadue minuti di “Hotspot”, quattordicesimo album dei Pet Shop Boys, sono una ventata di leggerezza e divertimento con cui il leggendario duo britannico rende omaggio alla propria storia. Registrato tra Londra, Los Angeles e Berlino, il nuovo frutto della quarantennale collaborazione tra Neil Tennant e Chris Lowe non punta a rimescolare le carte in tavola; si limita, molto più semplicemente, a passare una mano di vernice fresca sulle consuete sonorità  dance pop ed EDM.

Dietro il bancone del mixer siede, per la terza volta consecutiva dopo “Electric” (2013) e “Super” (2016), il pluripremiato produttore Stuart Price. L’uomo che quindici anni fa risollevò la carriera di Madonna con il trionfale “Confessions On A Dance Floor”, tanto per intenderci. Un nome di peso per un lavoro che, purtroppo, sarà  ricordato dai posteri come un episodio minore nella ricca discografia dei Pet Shop Boys.

Un bel compitino da dare in pasto ai fan più attempati, pronti a lanciarsi sulla pista da ballo in occasione di qualche serata revival. Per carità , non che ci sia nulla di male in tutto ciò; è solo che da due questi non più giovanissimi gentlemen londinesi era lecito aspettarsi qualcosa di un pizzico più eccitante.

Che fine hanno fatto le lunghe cavalcate dance alla “Left To My Own Devices”, o lo spassosissimo (e irresistibile) kitsch di “Go West”? Sono spariti da tempo. I dieci brani di “Hotspot” non servono ad altro che a rassicurare l’ascoltatore: i Pet Shop Boys sono vivi e vegeti e sanno ancora fare – in maniera più che dignitosa, aggiungerei – il loro mestiere.

E quello si limitano a fare, senza regalarci troppe sorprese. Si avvertono, tuttavia, i primi sintomi della vecchiaia: le canzoni più tradizionalmente dance inserite in scaletta (“Will-o-the-wisp”, “Happy People” e “Dreamland”) coinvolgono ma non hanno nè mordente, nè personalità . La pulsante “Monkey Business” ci fa rivivere l’epoca della disco music più lustrinata e pacchiana, concentrandola però in quattro minuti di sterile parodia.

Il ritorno alle origini synth pop si svolge in maniera molto più convincente. I suoni vellutati di “You Are The One” e “Only The Dark”, combinati con le squisite melodie del maestro Tennant, sembrano volerci far riassaporare le atmosfere zuccherine di una “Always On My Mind”. Inutile comunque farsi travolgere dalla nostalgia per i classici: pur essendo pigro e inconsistente dal punto di vista creativo, “Hotspot” resta un album gradevole dall’inizio alla fine. Magari da gustarsi in macchina, o nel tepore di casa: la discoteca è chiusa per limiti di età .

P.S.: Agli amici di Indie For Bunnies, immarcescibili amanti del britpop d’antan, farà  piacere sapere che la chitarra sulla ballad semi-acustica “Burning The Heather” appartiene nientepopodimeno che al grande Bernard Butler, indimenticato primo chitarrista dei Suede.

Credit Foto: Phil Fisk