Il 20 marzo l’esordio dei Gene compie 25 anni. Il 13 giugno 2020 Martin Rossiter chiuderà  la sua carriera. In mezzo a queste due date la carriera di una band che ha saputo realmente emozionarci…

Nel sabato sera londinese del 13 giugno, in un O2 Shepherds Bush Empire già  sold out, andrà  in scena l’ultimo atto (o almeno così pare) della carriera musicale di Martin Rossiter, conosciuto sopratutto per essere stato il leader dei Gene, guitar-pop band inglese con un notevole seguito negli anni ’90. Rossiter con largo anticipo (pure troppo a essere sinceri), a fine agosto 2019, ha deciso di rendere nota la data del suo addio al mondo della musica, con un concerto in cui ripercorrerà  tutta la sua carriera. L’annuncio è arrivato dopo la consueta procedura di creare la giusta aspettativa sui social network, con pratiche ben note ai fan di ogni band, per cui c’è stato qualcuno già  pronto a giurare che i Gene fossero ormai sul punto di riformarsi. Non è andata così, anzi, si è arrivati, paradossalmente, a dover gioire per un “farewell show” di un artista che, dobbiamo essere sinceri, si era già  comunque piuttosto eclissato dai riflettori musicali. Il suo unico disco solista “The Defenestration of St Martin” risale infatti al 2012 e i (pochi) concerti promozionali lo hanno visto per lo più in una dimessa veste piano/voce. La parola fine quindi, già  nell’aria, arriva non più solo di fatto, ma anche di nome.

Quello che lascia sorpresi è il successivo e immediato comunicato comune dei tre restanti ex membri del gruppo (Steve Mason, Matt James, Kevin Miles), pubblicato sulla pagina Facebook a nome Gene (gestita da un fan ma organo più o meno ufficiale). I tre non danno certo la loro benedizione alla serata, rimproverando a Rossiter di aver fatto tutto clandestinamente e di non averli messi al corrente di nulla. Il fatto che lo show, presumibilmente, sarà  costituito per lo più da canzoni da loro co-scritte (del resto la locandina del concerto non nasconde affatto il nome Gene, anzi, ne ha fatto un punto di forza per invogliare il nostalgico ascoltatore), suonate, nell’occasione, da altri musicisti, non è stato particolarmente gradito (sarà  una serata a base di “karaoke versions of Gene songs” è quanto rinfacciano al loro ex cantante), anche perchè i tre lasciano intendere che sarebbero stati pronti a riprendere volentieri il loro posto sul palco a fianco di Rossiter. Accuse di avidità , presunzione e/o di incapacità  di gestire e superare possibili rancori lontani sono piovute su Martin, dopo questo scritto, ma lui non si è scomposto più di tanto, ribadendo chiaro ai fan: “Sarà  la mia ultima serata. Se vi va di venire bene, altrimenti capirò“. Al di là  di tutto restano due elementi di rammarico. Sorprende che Martin Rossiter, in questa occasione, non abbia fatto sfoggio della sua proverbiale dialettica, spesso sagace e tagliente in passato, mentre ora incapace, a quanto sembra, di gestire i più basilari rapporti con (ex) amici e, sopratutto, spiace che l’immagine della band ne sia uscita macchiata, con un finale sporcato da rancori e discordie che avvicinano, ancora una volta, i Gene a quello che per tutta la loro carriera è stato il loro metro di giudizio, ovvero gli Smiths. Fin dai primissimi singoli della band, infatti, lo spettro della band di Manchester è stato costantemente evocato. La voce e l’intensità  emotiva di Rossiter e i giri di chitarra ispiratissimi e sensibili di Mason spingono fan e critica a citare in continuazione Morrissey e Marr, mentre i Gene stessi si defilano, citando piuttosto Jam e Style Council come fonti d’ispirazione. “For The Dead” e “Be My Light Be My Guide” (entrambe del 1994) incantano, i concerti da tutto esaurito si susseguono, la Polydor Records li mette sotto contratto e NME li consacra. La strada per l’album d’esordio “Olympian” (1995) non potrebbe essere più in discesa. L’album racchiude altri singoli accattivanti come “Haunted By You” o la dolce “Sleep Well Tonight”, ma è con la struggente “London Can You Wait?” e l’epica title track   che i nostri conquistano cuore e anima degli ascoltatori.

Nel 1996, tanto per creare ancora di più un collegamento con gli Smiths, voluto o casuale che sia, esce una compilation/raccolta, “To See The Lights”, di singoli, b-side e session radiofoniche e live, come la band di Morrissey fece nel 1984 con “Hatful Of Hollow” (seconda uscita per ambedue le band). Il disco successivo, “Drawn To The Deep End”, arriverà  l’anno dopo e Rossiter, in quell’occasione, mostrerà  ai sui fan, nei testi, la sua anima più sofferente, sola e desiderosa di attenzioni mentre il gruppo metterà  in risalto il suo lato più rock e incalzante. Mostrano i muscoli i Gene e canzoni come “Fighting Fit” o “We Could Be Kings” lo stanno a testimoniare, anche se poi non mancano momenti più raccolti e intensi come le ballate “Where Are They Now?” e “Speak to Me Someone”, solo per citare i singoli più conosciuti.

Il 1998 diventa un anno di transizione, ricordato solo per il cambio di look della band che dismette la consueta eleganza fatta di Clarks, giacche e camice per un look più casual: Martin addirittura si rasa a zero. Nel 1999, all’uscita del nuovo singolo “As Good As it Gets”, sembra che l’attesa per i Gene non sia più così vibrante come in passato. Il pezzo è melodico e accattivante, dal forte piglio Jam, ma non spinge “Revelation” ai piani alti della classifica. Peggio ancora farà  lo stravagante singolo “Fill Her Up”, capace però di mettere in luce l’eclettismo della band che unisce un taglio alla Morricone, una tromba incalzante e un coro “da cosacchi” (ascoltare per credere!). Album politico, critico e arrabbiato, ma dal songwriting altalenante. La perla assoluta resta “You’ll Never Walk Again”, emozionante chiusura del disco con un climax da pelle d’oca: un semplice giro di piano, la voce di Martin a salire e la chitarra che entra in modo magnifico. La casa discografica, non particolarmente entusiasta del venticinquesimo posto in classifica, scarica i Gene che non si dimostrano affatto sorpresi, anzi, mostrano quasi soddisfazione, scontenti dalla promozione inadeguata al disco. La band non smette di andare in tour e, in America, il successo è tale da ricavare da quelle date un disco dal vivo, “Rising For Sunset”, che mostra come la magia sprigionata dalla band nella sua dimensione live sia tutt’altro che sopita.

Il 2001 consegna alle stampe l’ultimo lavoro, “Libertine”, uscito tramite l’etichetta della band (Sub Rosa Records), parziale ritorno alle dimensioni più raffinate del passato. I testi ritrovano le tematiche delle difficoltà  in amore e nella vita e indugiano sulla capacità  di assorbire i colpi e i traumi per superarli al meglio. I Gene mantengono le loro influenze ma dimostrano di averle ben assemblate e personalizzate. Il disco è sicuramente piacevole, con un picco melodico nella “smithsiana” “Let Me Move On”, nella toccante ballata “Is It Over?” e negli arrangiamenti noir di “Does He Have A Name?”. La storia dei Gene si conclude, amichevolmente, nel 2004, con l’ultimo concerto al London Astoria il 16 dicembre. Il resto è storia recente.

Si narra che, al loro primo incontro, Martin Rossiter diede a Steve Mason un biglietto da vista che riportava la dicitura “Soothsayer to the Stars“: chissà  se, nella sua pratica da novello indovino, era riuscito a intravedere nelle stelle il contorno luccicante non solo della sua futura (e lodevole) parabola artistica ma anche un finale così astioso per quella “sua” band che, nella serata del 13 giugno 2020, sarà  comunque, inevitabilmente, evocata e celebrata, pur mancante di ben tre suoi elementi cardine, non invitati all’ultimo ballo.